Ogni lunedi, su "Corriere della Sera", il prof. Alessandro D'Avenia pubblica un suo intervento sull'eterna lotta tra genitori e figli, con particolare attenzione al tema educativo in adolescenza.
La rubrica si intitola "Letti da Rifare" ed offre molti spunti di riflessione proprio sul tema dell'educazione.
Oggi proponiamo una sintesi dell'intervento di lunedì 29 gennaio, che è possibile leggere interamente qui:
La rubrica si intitola "Letti da Rifare" ed offre molti spunti di riflessione proprio sul tema dell'educazione.
Oggi proponiamo una sintesi dell'intervento di lunedì 29 gennaio, che è possibile leggere interamente qui:
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L’educazione non si riduce a un mero adattamento o
addestramento alla realtà, significa piuttosto incoraggiare, aiutando a
eliminare le illusioni della conoscenza di sé che portano un adolescente a
sottovalutarsi o sopravvalutarsi, a portare nella realtà qualcosa di nuovo, con
tutti i rischi di fallire che questo comporta. L’adattamento alla realtà fine a
se stesso ingabbia i ragazzi in una selva di regole che recintano la vita e da
cui, così facendo, si libereranno acriticamente e violentemente o di cui
diverranno prigionieri apatici. Aiutare a crescere vuol dire indicare perché
vivere, per poter abbandonare la comoda posizione fetale e assumere quella
eretta di chi esplora: chi di noi non ha almeno una piccola cicatrice generata
dagli «spigoli» incontrati in giovane età? Come diceva Nietzsche: «Un uomo
dotato di un perché può affrontare quasi qualsiasi come». Ma dove è il perché?
Perché vivo? Per chi vivo? In assenza di un progetto riempiamo la loro vita di
regole senza un gioco, o li illudiamo di potere giocare senza che ci siano
regole.
(...........)
i ricordo di una ragazza stufa delle approssimative lezioni di italiano di una docente svogliata e che recuperava ponendo domande a un professore di un’altra classe, durante l’intervallo. Decise di cambiare sezione, benché fosse al quarto anno di superiori. Tutti gli adulti di riferimento (genitori, preside, altri docenti) privilegiavano la via della sicurezza: sei alla fine, lascia perdere, tieni duro. Lei invece perseguiva la via della salvezza, perché voleva coltivare la sua passione. La incoraggiai a fare il grande passo.
Mi scrisse alla fine dell’anno successivo,
felice, per l’esito brillante della maturità e per il senso di efficacia,
autonomia, sfida che quell’avventura le aveva dato.
La vita era nelle sue mani
e non poteva rovinare i suoi talenti per quieto e disperato vivere. Aveva
affrontato la paura (altrui prima che sua): per questo era maturata davvero,
non certo per l’esame. «Racconta di quella volta che hai ricevuto un dono che
ti ha fatto felice»: così recitava il titolo di un tema assegnato a un
dodicenne qualche settimana fa. Che cosa vi aspettereste? Quale oggetto? Quale
videogioco? Queste le sue parole: «Mi ricordo un fatto avvenuto cinque anni fa.
Era sera e stava piovendo, mia madre e mio padre dovevano uscire, mio fratello
era a un allenamento e non sarebbe tornato prima delle 21.15. Dato che erano le
20.40 ho pensato che avrebbero chiamato qualcuno per tenermi tranquillo e
mettermi a letto, invece mio padre mi ha comunicato che, a parer suo, io fossi
abbastanza grande da poter passare un pezzo di serata da solo.
La mamma non era
molto d’accordo ma poi acconsentì.
Questo è stato uno dei regali più belli della mia vita e quei 35 minuti mi hanno fatto sentire importante e mi hanno fatto capire il senso della fiducia e il fatto che le persone accanto a me si accorgessero che stavo diventando autonomo».
Forse bastano 35 minuti per sapere
ciò che diceva un personaggio shakespeariano: «se l’anima è pronta allora anche
le cose sono pronte» e non il contrario. Se provassimo, a casa, a scuola, a
incoraggiare questa autonomia con piccoli o grandi responsabilità che diano ai
ragazzi senso di autonomia, efficacia e accettazione degli eventuali
fallimenti? Se invece di riempire le loro tasche di oggetti rassicuranti, riempissimo
le loro vite di progetti rischiosi?
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