Lui è Fabieke (nome d'arte di Fabio Del Monte, classe 1987) mago dell’Aerosol Art, tecnica pittorica aerografica nata negli Stati Uniti negli anni '70. Lei è Mariele Ventre:
sguardo magnetico, dal piglio dolce e autorevole adorata dai bambini;
di fatto cuore e anima del Piccolo Coro dell’Antoniano a lei dedicato
dopo la sua scomparsa nel 1995. Si sono "incontrati" qualche tempo fa e il pretesto è stata la richiesta di realizzare un murales sul muro esterno della scuola di San Lazzaro di Savena (BO) e intitolata pochi giorni fa proprio alla piccola grande direttrice del Piccolo Coro dell'Antoniano. Il racconto di questo "incontro" che Fabieke ha pubblicato sul suo blog va assolutamente letto: E per questo lo pubblichiamo anche noi:
Suona il telefono. E’ Giulia dal Comune di San Lazzaro. Rispondo e mi
sento domandare se fossi stato disponibile a fare un graffito sulla
facciata di una scuola ritraendo Mariele Ventre. Di primo impatto penso
“e me lo chiedete anche?” poi mi ricordo che mia mamma si raccomanda
sempre di essere educato e quindi mi limito ad un “si ok, i tempi sono
stretti e ci saranno da fare i salti mortali, ma certo che si!”. Per la
scelta dell’immagine vengo messo direttamente in contatto con la
Fondazione Mariele Ventre dove approccio con chi Mariele l’ha conosciuta
davvero. Donatella e Maria Antonietta (la sorella) si dimostrano da
subito disponibili a collaborare e soprattutto felicissime di ciò che
sta prendendo forma. Mi raccontano un po’ di Mariele, si complimentano
per le mie opere, mi danno del lei e mi ringraziano anzitempo perché è
un onore per loro. Ah per loro è un onore? C’è non so, hai capito? P-E-R
L-O-R-O. Boh va beh, metto da parte l’imbarazzo, le lascio la mia mail
ed in meno di una settimana ricevo tramite WeTransfer una roba come
trentaquattro foto di Mariele (una più bella dell’altra) e ne scelgo
quattro. Le mando subito ad Isabella e da quattro diventano due. In
teoria sarebbe dovuta essere solo una, ma Mariele è Mariele e quindi
vale tutto doppio. Ho a disposizione una settimana di tempo, nella quale
ho già diversi impegni personali impossibili da rimandare, guardo le
previsioni meteo e battezzo le uniche due date sul calendario
disponibili, sperando che le precipitazioni scioperino. Mi organizzo con
il noleggio del cestello e successivamente con Rosario, un tecnico del
Comune che se non ci fosse sarebbe da inventare, una di quelle persone
che lascia parlare i fatti e con la quale è sempre una garanzia
collaborare. Ore 6:30, la sveglia mi ricorda che oggi non si va in
ufficio ma a dipingere e difatti alle 7:15 son già sul cestello. Dopo
pochi minuti iniziano ad arrivare i primi bimbi accompagnati dai
genitori e vederli felici mi fa amare ancora di più la mia passione.
Dopo poco mi raggiunge Claudia, un’insegnante, e prima che io riesca a
ricambiarle il saluto esclama “Fabio ti ho portato la colazione: due
brioche, una con la crema ed una con la marmellata, un caffè e un
cabaret di pasticcini” al che, dall’alto del mio cestello, la ringrazio
anche se caffè e marmellata non mi piacciono (questo lo sto scrivendo
per le prossime volte che vorrete offrirmi qualcosa eheheh) e procedo
con ciò per cui son stato incaricato. Il muro è grande ma non demordo,
mi rimetto le cuffie, la maschera ed il resto vien e da se. A metà
mattina mi raggiunge anche Donatella della Fondazione Mariele Ventre,
appassionata di fotografia e di Street Art, la quale mi farà compagnia
coi suoi quasi mille scatti per entrambi i giorni, mi regalerà una copia
di “Mariele Ventre – Dentro il coro della vita“ e si rivelerà una
persona davvero squisita. Poco dopo arriva anche la mia ragazza che,
vista l’estrema vicinanza, ha deciso di fare pausa pranzo insieme. Si
insomma dipingo, non sono in ufficio, ho una fotografa tutta per me e
per pranzo la mia ragazza che mi fa compagnia, cosa posso volere di più?
Riprendo col graffito ed alle 18:00 decido che è l’ora di andare a casa
perché la stanchezza, al contrario della mano che faccio fatica a
sentire, si fa sentire eccome. Il mattino seguente solito tran-tran: io,
il muro e Donatella. Questa volta niente colazione ma in compenso
Claudia mi regala una copia del diario Scolastico delle scuole di San
Lazzaro, che vede in copertina il mio graffito delle scuole Rodari. Io
sempre dall’alto del mio cestello, la ingrazio di cuore e proseguo. I
bambini sono scatenati più che mai, alcuni mi chiedono di autografargli
il diario, altri di fare un selfie ed anche i genitori si lanciano coi
complimenti. La stanchezza si dimezza all’istante ed inizio a vedere la
fine. Ore 18:30 è finalmente finito ed anche io non sono da meno,
difatti nel fare manovra con il cestello, sfioro un muretto e rompo la
plastica della freccia. Eh va beh, fa parte del gioco, non morirò certo
per quei quindici euro. Arrivo a casa, faccio la doccia, mi metto sul
divano, perché l’indomani si lavora ed è giusto riposarsi. Neanche a
farlo apposta ed il mio telefono inizia a vibrare all’impazzata per le
decine di complimenti. Tutto bellissimo, ma il meglio deve ancora
venire. Oggi esco dall’ufficio, salgo in auto, collego il bluetooth e
Prince e la sua Purple Rain vengono interrotti sul più bello. E’ Maria
Antonietta Ventre che mi vuole ringraziare per quanto è stato fatto e
quando le domando “Quindi le somiglia?” mi risponde con un netto “non è
che le somiglia, è proprio lei! Senza se e senza ma! Quando l’ho vista
mi sono addirittura emozionata e commossa. Lei è stato bravissimo, non
so che altro dire!”. Io boh, sinceramente penso di avere finito i
termini per descrivere cos’è per me il writing, quindi mi limito a dire
G-R-A-Z-I-E! Per quanto riguarda l’inaugurazione del muro, questa si
terrà domattina e mi spiace davvero non poterci essere, però spero che
chi decidesse di partecipare, rimanga soddisfatto di quanto fatto perché
alla fine è sempre e solo amore, se amore sai dare.
Educare senza gridare è la scelta migliore che possiamo fare come
genitori ed educatori. Urlare non è istruttivo né salutare per il
cervello del bambino. Lungi dal risolvere qualcosa, in realtà si
attivano due tipi di risposte emotive: paura e/o rabbia. Impariamo a
educare, a imporre la disciplina con il cuore, l’empatia e la
responsabilità.
Tutti coloro che sono genitori o che lavorano ogni giorno nel mondo
dell’educazione e dell’insegnamento saranno stati tentati di alzare la
voce in molteplici occasioni, allo scopo di fermare un comportamento
fuori controllo o di sfida, di bloccare dei capricci che mettono a dura
prova la pacatezza. Non possiamo negarlo, queste situazioni capitano spesso, sono momenti in cui la fatica si combina con lo stress e la nostra disperazione supera il limite.
Gridare non educa, educare con urla rende sordo il cuore e chiude il pensiero
Ma cedere e lasciare spazio alle urla è qualcosa che molte persone
fanno. Non è un tabù genitoriale. In realtà alcuni dicono che gridare,
così come “un bel ceffone quando ci vuole”, sia utile. Ora, per chi sceglie di educare gridando e vede di buon occhio questi metodi, si tratta della normalità.
Forse sono gli stessi metodi che sono stati usati con loro quando erano
bambini. Adesso che sono diventati adulti, non sono in grado di
utilizzare altri strumenti, altre alternative più utili e rispettose.
Educare senza gridare non è solo possibile, ma necessario. Disciplinare, correggere, guidare e insegnare senza ricorrere alle urla ha un impatto positivo sullo sviluppo della personalità
del bambino. Si tratta di un modo efficace per prendersi cura del suo
mondo emotivo, per soddisfare la sua autostima, per dare l’esempio e
fargli vedere che c’è un altro tipo di comunicazione che non fa male,
che sa comprendere ed entrare in connessione con le esigenze reali.
L’impatto neurologico sul cervello dei bambini
Qualcosa che come genitori ed educatori avremo notato in più di
un’occasione è che a volte ci mancano le risorse, le strategie e le
alternative. Sappiamo che gridare non è utile e che non ci porta mai a
ottenere il risultato che ci aspettiamo. Quello che otteniamo è che
nello sguardo del bambino compaia un guizzo di paura, di rabbia
repressa… È quindi necessario apprendere le chiavi per educare senza gridare, per creare un’educazione positiva che ci permetta di risolvere con intelligenza queste situazioni.
Un primo aspetto che non possiamo perdere di vista è l’impatto che le
grida hanno sul cervello umano e sullo sviluppo neurologico del
bambino. L’atto di “gridare” ha uno scopo ben preciso nella
nostra specie, così come in qualsiasi altra: avvertire di un pericolo,
di un rischio. Il nostro sistema di allarme si attiva e rilascia il cortisolo,
l’ormone dello stress che ha come scopo quello di metterci nelle
condizioni fisiche e biologiche necessarie per fuggire o lottare.
Di conseguenza, il bambino che vive in un ambiente dove viene
fatto uso e abuso delle urla come strategia educativa soffrirà di
precise alterazioni neurologiche. L’ippocampo, la struttura del
cervello legata alle emozioni e alla memoria, sarà più piccolo. Anche
il corpo calloso, punto di congiunzione tra i due emisferi, riceve meno
flusso sanguigno, influenzando così l’equilibrio emotivo, la capacità di
attenzione e altri processi cognitivi…
Gridare è una forma di abuso, un’arma invisibile, non si vede e non si tocca, ma il suo impatto sul cervello
del bambino è semplicemente devastante. Questo rilascio eccessivo e
costante di cortisolo mantiene il bambino in uno stato permanente di
stress e di allarme, in una situazione di angoscia che nessuno merita e
che nessuno dovrebbe provare.
Educare senza gridare, educare senza lacrime
Paolo ha 12 anni e non sta andando molto bene a scuola. I suoi
genitori adesso lo stanno mandando in un istituto dove danno lezioni
extra scolastiche per rinforzare varie materie. Si alza ogni giorno alle
8 del mattino e torna a casa alle 9 di sera. In questo trimestre Paolo
non ha avuto la sufficienza in due materie, matematica e inglese. Due in
più rispetto allo scorso trimestre.
Quando torna a casa con i voti, suo padre non può fare a meno di
urlargli contro. Gli rimprovera la sua passività e tutti i soldi che
stanno investendo su di lui “per niente”. E non manca la tipica frase
“se continui così, non diventerai mai nessuno”. Dopo il rimprovero, Paolo si chiude in camera ripetendosi che fa tutto schifo,
che vuole lasciare la scuola e andarsene da casa il prima possibile,
lontano da tutto e da tutti, in particolare dai suoi genitori.
Questa situazione, certamente comune in molte case, è un piccolo
esempio di ciò che provocano le grida assieme a delle frasi infelici
pronunciate in un dato momento. Ma vediamo più in dettaglio quello che
una situazione di questo tipo può causare se queste reazioni sono
all’ordine del giorno nell’ambiente familiare.
I bambini e gli adolescenti interpretano il grido come
un’espressione di odio, quindi se i loro genitori si rivolgono a loro in
questo modo, si sentiranno respinti, non amati e disprezzati.
La mente non elabora correttamente le informazioni che vengono
trasmesse attraverso un messaggio emesso con un tono di voce alto.
Quindi tutto ciò che si dice gridando è privo di qualsiasi utilità.
Ogni grido suscita un’emozione e in generale si tratta di rabbia e
necessità di fuggire. Più che risolvere la situazione, la complichiamo
ulteriormente.
Come possiamo educare senza gridare?
L’abbiamo detto all’inizio, ci sono molte possibilità prima di ricorrere alle urla, diverse strategie che possono aiutare a costruire un dialogo più riflessivo, un’educazione positiva sulla base di quei pilastri sui quali costruire un rapporto più sano con i nostri figli.
Vediamo alcune soluzioni.
Dobbiamo prima di tutto capire che gridare significa perdere il controllo.
Solo questo. Pertanto nel momento in cui sentiamo che appare il bisogno
di gridare, dobbiamo fare un respiro e riflettere. Se il nostro primo
impulso per porre fine ai capricci di questo bambino di 3 anni o per
comunicare con questo adolescente di 12 è ricorrere alle urla, dobbiamo
fermarci e capire che alzando la voce perdiamo tutto.
C’è sempre un motivo dietro un comportamento o una situazione.
Comprendere ed entrare in empatia con il bambino è un progresso, e per
questo sono richieste due cose: la pazienza e la vicinanza. Il bambino
che esplode in un capriccio ha bisogno che gli insegniamo a gestire il
suo complesso mondo emotivo. L’adolescente abituato a sentirsi dire cosa
deve fare in qualsiasi momento, ha bisogno che gli chiediamo cosa
pensa, cosa sente, cosa gli succede… Essere ascoltati a volte può essere un vero toccasana in questa età e in qualsiasi altra.
Per concludere, educare senza gridare è prima di tutto una scelta personale che richiede volontà e impegno quotidiano da parte di tutta la famiglia.
Bisogna anche dire che non c’è una chiave magica che ci aiuterà in
tutte le situazioni e con tutti i bambini. Tuttavia, alcune sono utili
con la maggior parte di loro: condividere del tempo di qualità, dare
ordini coerenti, identificarci come figure di supporto incondizionato o
incoraggiarli ad assumersi le responsabilità che sono alla loro portata
considerando il loro livello di sviluppo.
Saverio Sgroi è educatore e consulente familiare. Opera principalmente nelle scuole dove parla di educazione dell’affettività ai ragazzi e ragazze (il suo progetto è www.unastoriaunica.it) e ai genitori parla più in generale di educazione. E' anche autore e cura il suo sito da cui abbiamo estratto l'articolo che qui proponiamo (qui l'originale www.lasfidaeducativa.it
Il tesoro dell'intimità
Una delle cose più belle di internet, almeno per chi è cresciuto con il mito dell’enciclopedia, è quella di poter cercare immediatamente ciò che ti interessa: vai su Google, digiti quello che ti serve e da quel momento devi solo scegliere tra le innumerevoli informazioni disponibili. Certo, poi bisogna verificare che esse siano sempre attendibili o che corrispondano esattamente a ciò che stavi cercando. È quello che mi è successo qualche tempo fa quando, nel preparare un incontro sull’intimità, avevo bisogno di un’immagine che la rappresentasse; ho ingenuamente digitato “intimità” sul motore di ricerca e potete immaginare che cosa sia venuto fuori…
Racconto spesso questo episodio ai ragazzi quando affrontiamo questo tema. E subito dopo chiedo loro se conoscono l’etimologia dell’aggettivo “intimo”. In pochi sanno che la sua origine viene dal latino intimus, superlativo assoluto di interior, che corrisponde all’italiano “interiore”. Grande è quindi la loro sorpresa quando si rendono conto che l’intimità ha a che vedere con ciò che sta più dentro, che è più interiore del nostro essere.
L’intimità è quel luogo profondo dove l’io incontra se stesso: non soltanto è la coscienza di sé ma è soprattutto quel luogo fatto di valori, desideri, sogni, gioie, dolori. Quel luogo che sveliamo solo a chi è in grado di meritarlo. Aiutare gli adolescenti a comprendere questa verità è il primo passo perché divengano consapevoli dell’enorme valore che ha l’intimità; ad essa è infatti legata l’identità, l’autostima, la capacità di entrare in relazione con gli altri, l’amicizia, l’amore, il rapporto con il proprio corpo.
Per scoprire il valore dell’intimità è necessario imparare a guardarsi dentro, un lavoro di per sé già difficile, reso ancora più arduo da un mondo che ci ha abituati a proiettarci costantemente al di fuori di noi: oggi conta molto il modo di presentarsi, il giudizio degli altri, l’accettazione, la moda, l’apparenza. Guardarsi dentro è ancora più difficile per un adolescente, affascinato sì dalla scoperta del proprio mondo interiore ma allo stesso tempo timoroso di scoprire chi è veramente. Eppure è un passaggio fondamentale perché un ragazzo possa lentamente arrivare a rispondere alla domanda che più di ogni altra caratterizza l’adolescenza: chi sono io? Risposta che gli consentirà a sua volta di potersi fare un’altra domanda importante: per chi sono? È impossibile infatti amare un’altra persona senza aver prima imparato a conoscere ed amare sé stessi.
“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare”, si sente rispondere il giovane protagonista del film Noi siamo infinito dopo aver chiesto al suo professore perché certe persone non siano capaci di difendersi da chi le maltratta. Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare: è difficile amare gli altri se prima non si è capaci di amare sé stessi. È difficile pretendere di essere rispettati se in fondo si è convinti di valere poco.
Qualche mese fa ho chiesto ad alcuni ragazzi se erano d’accordo sul fatto che tra intimità ed autostima c’è un fortissimo legame; una di loro mi ha risposto così: “Quando una persona ha una grande autostima capisce che la sua intimità non è da concedere a tutti. L’intimità comporta una grande vulnerabilità, e per questo può essere data solo a qualcuno di cui ci si fida, che sia un amico, un partner, un parente…”. È logico che sia così: senza una profonda autostima come si potrà perdere la paura di mostrarsi per quello che si è senza essere sopraffatti dal timore di non essere accettati e amati?
La consapevolezza della propria intimità è inoltre molto importante per poter coltivare relazioni di amicizia e amore. Che cosa condividiamo infatti in una relazione significativa con un’altra persona se non la nostra intimità? E come potremo condividerla se non ne siamo consapevoli perché viviamo costantemente al di fuori della nostra vita? Quante relazioni di amicizia o, ancora di più, di coppia rimangono fragili e superficiali per l’incapacità di uno o di entrambi di scoprire e custodire la propria intimità? Quante relazioni di coppia rimangono sterili perché non si riesce ad andare oltre la sola condivisione del corpo?
Per questo è molto importante educare l’intimità: aiutare i ragazzi a prenderne coscienza, a valorizzarla, a custodirla, a difenderla. Come? È chiaro che molto dipende dall’età e dalla sensibilità di ogni singola persona. Ad ogni modo, alcune indicazioni generali possono essere utili, tenendo presente che si tratta di consigli che sono tanto più efficaci quanto più vengono attuati sin da quando i figli sono ancora piccoli.
Iniziamo, per esempio, a rispettare noi per primi l’intimità dei ragazzi: i loro silenzi, i loro tempi, i loro spazi. Sappiamo quanto non è facile vincere la tentazione di curiosare e intrometterci nella loro incipiente vita affettiva, soprattutto davanti al timore che possano farsi del male. “Ero talmente impaurita che potesse commettere degli errori che sono andata a curiosare nel suo diario, pur sapendo che se mi avesse scoperto avrei perso per sempre la sua fiducia”. Queste parole di una mamma che un giorno venne a trovarmi preoccupata per alcuni atteggiamenti della figlia parlano da sole: quasi sempre siamo consapevoli che violare l’intimità dei figli è un errore così grande da compromettere il rapporto di fiducia che ci deve essere con loro; e nonostante ciò continuiamo a farlo.
Impegniamoci quindi a rispettare la loro intimità, sia fisica che interiore. Aiutiamoli poi a riflettere su quello che significa condividere i propri spazi personali sui social network e su quanto molte volte, senza che ce ne rendiamo conto, mettiamo in piazza la nostra intimità pubblicando informazioni che mai e poi mai riveleremmo se fossimo faccia a faccia con i nostri amici social.
Un altro campo è quello del modo di vestire e di parlare. Papà e mamma, da prospettive diverse, possono per esempio aiutare i figli a comprendere i messaggi che vengono trasmessi da un certo modo di vestire più o meno provocatorio, tipico dell’adolescenza.
Insegniamo ai ragazzi a coltivare il pudore che lungi dall’essere qualcosa di superato è una qualità molto importante per chi ci tiene a difendere e custodire la propria ricchezza interiore. “L’intimità è una sfera fatta di pudore”, mi ha detto una volta una ragazza; non sarà una definizione perfetta di intimità ma lascia intendere che, nel fondo del loro cuore, i ragazzi conoscono molto meglio di quanto noi pensiamo il legame che c’è tra intimità e pudore, anche se a volte non sanno spiegarlo.
Insomma, i modi per aiutarli a custodire la propria intimità sono davvero tanti. In fondo, si tratta di mettere in pratica le parole di una ragazzo che, alla domanda su come si può difendere e sviluppare meglio la propria intimità, mi ha risposto così: “Attraverso l’aiuto di persone speciali nella propria vita”.
Il profossore e scrittore Alessandro D'Avenia, con l'avvio del nuovo anno scolastico, riprende la sua rubrica "Letti da rifare" sul "Corriere della Sera" ogni lunedi mattina. Il primo appuntamento di lunedi 4 settembre, che aveva come spunto quabto accaduto a Genova alla vigilia di Ferragosto, vale la pena leggerlo tutto.
È la prima
campanella dell’anno scolastico quella che suonerà tra poco: l’ennesima
promessa di un nuovo inizio, rintocco del desiderio umano che non smette
mai di sperare che una vita rinnovata e più piena possa sorgere dal
ripetitivo orizzonte quotidiano. Immagina, cara/o collega, di sederti al
posto di un tuo studente in questo primo giorno. Guardati entrare in
classe, osservati: dal portamento ai libri che hai con te. Che cosa
vedi? Perché sei lì? Per chi sei lì? Perché hai scelto chimica,
italiano, fisica, diritto… e hai scelto di raccontarli a una nuova
generazione? Rispondi a queste domande mentre ti vedi disporre gli
strumenti del mestiere sulla cattedra. Adesso ascoltati formulare
l’appello. Come pronunci i nomi dei tuoi studenti? Come guardi i loro
volti? E che cosa vedi sul tuo?
Forse nel tuo sguardo puoi scorgere
delusione e stanchezza, per un sistema che non valorizza la tua
personalità e la tua professionalità… Ma ricorda che i ragazzi saranno
lo specchio di ciò che trasmettono i tuoi occhi, perché lo sguardo umano
non è mai neutro ma contiene esattamente la vita che vuole dare o
togliere, così dal loro sguardo saprai sempre com’è il tuo. Desiderano
ciò che tu desideri: essere riconosciuti, valorizzati, supportati. Non
vedi, forse, la tua stessa carne? Perché non prendersene cura come
vorresti si facesse con te? Proprio perché loro non sanno ancora farsi
carico della vita, è a te, adulto, che chiedono di provarci, per poter
scoprire che maturare è un’avventura e non una colpa da espiare. Essere
adulti è questo: finita l’iniziazione alla vita, riuscire a portarne il
peso, come un padre solleva suo figlio perché colga i frutti sui rami a
cui neanche lui arriva. Se ti avvicini puoi scorgere sui loro volti i
segni della solitudine e della paura: la spavalderia, le provocazioni, i
silenzi, le maschere di questa età tradiscono il desiderio di avere un
nome, di abitare la vita. Non sono forse i segni della tua stessa
ricerca? Ma come far sì che la speranza sia sempre un passo avanti
rispetto alla paura? Da dove attingere la pazienza e la generosità per
farsi carico di queste vite? Un pensiero ti conforta: tu sai che sono la
cultura e le buone relazioni le risposte a questa ferita, alla
fragilità dell’io rispetto alla pienezza a cui aspira. La cultura
generosamente condivisa nella relazione educativa, la trasmissione del
vero, del bello, del buono, resistenti al tempo vorace, sono proprio ciò
che consente di dare peso e senso alla vita, la risposta umana al
nulla: «Ove tende questo vagar mio breve? E io che sono?», ti
interrogano con le parole di Leopardi. Ti chiedono di «soffrire» per
loro, e il verbo vuol dire sia «portare il peso» della vita sia «dare»
la vita: concepirli e generarli. Non respingerli nel buio, lasciali
venire alla luce, attraverso di te.
Ma c’è quella luce nei tuoi occhi? Come
sarà la tua prima lezione? Come nelle sinfonie la prima lezione è la
tonalità da cui dipende tutto l’anno: il tuo spartito svilupperà il tema
giorno per giorno e loro sono gli strumenti, tutti necessari,
dell’orchestra. Tu, maestro, sai che la musica non è tua, ti precede, ma
sei tu a interpretarla, realizzarla, darle forma, insieme a loro. Senza
loro agiti la bacchetta nel nulla. Avete bisogno l’uno degli altri,
solo così l’armonia accadrà. Lo so: è faticoso, i colleghi sono a volte
difficili, lo stipendio fa pena, le riunioni sono lunghe, le scartoffie
troppe, i genitori ingombranti. Puoi voltarti dall’altra parte e dire
che non sono affari tuoi. Invece lo sono. La tua eredità sono loro.
Ero a Genova quando è crollato il ponte. Il
silenzio che ha avvolto la città era infranto solo da ambulanze ed
elicotteri e, negli intervalli muti, si affollavano i «perché» con cui
la mente cerca di strappare un senso alle catastrofi. Siamo arrivati
tutti a una conclusione, purtroppo frequente nel nostro Paese: bisognava
pensarci prima. Anche la scuola è un ponte che, ogni giorno, trasporta
quasi 9 milioni di vite da un destino a una destinazione, dall’informe
alla forma pienamente umana della vita. Proprio tu sei chiamata/o alla
manutenzione ordinaria e straordinaria del ponte. Guardati entrare con
la tua cassetta degli attrezzi: alla tua professionalità sono affidate
le loro vite. Come avresti voluto ti si guardasse e che cosa avresti
voluto sentire? Non certo quello che disse una volta una docente,
fissando la nuova classe, il primo giorno del primo anno di superiori:
«Siete troppi, vi ridurremo». Il tu viene alla luce solo se l’io
dell’adulto lo concepisce e lo genera, e l’io non per questo si perde,
anzi è rigenerato come accade ai tessuti di una madre in dolce attesa.
Insegnare è una delle migliori cure contro l’invecchiamento che io
conosca.
Durante l’estate ho passato dei giorni
insieme a mia sorella che ha una bambina di pochi mesi. Era una gara a
intuire di cosa avesse bisogno e, chi dei familiari entrava nel raggio
di azione dello sguardo di Beatrice, era attratto dalla forza di gravità
della «cura». L’empatia, l’intuire di che cosa la vita in formazione ha
bisogno, è vitale per il bambino e per chi gli sta attorno: noi umani
non ci prendiamo cura dei piccoli perché li amiamo, ma li amiamo perché
ci prendiamo cura di loro. Curando, impariamo ad amare e conoscere, e
così maturiamo anche noi. Bambini e adolescenti vengono alla luce se
trovano educatori in grado di nutrire il loro bisogno di avere una
forma: formarsi. E lo chiedono a chi è già «formato», ma se costui non
se ne cura le vite crollano. Il docente, mediatore tra l’informe e le
forme di vita che racconta, a partire dalla sua, è chiamato alla cura,
per professione. Rifiuto la retorica che attribuisce al mio mestiere la
parola «missione», perché ascrive l’empatia, strumento professionale
necessario al riconoscimento della vita altrui come propria, all’ambito
di supereroi e mistici. Empatia non è sostituirsi agli alunni, ma
conoscerne e sostenerne battaglie, contraddizioni, domande, offrire
risposte adeguate se le abbiamo, o una presenza adeguata se non le
abbiamo. I ragazzi vogliono adulti veri: né amiconi nostalgici
dell’adolescenza né aridi erogatori di nozioni. La cultura non è una
sovrastruttura snob, ma il modo in cui la vita umana cerca il suo
compimento. Non basta informare, occorre formare: aiutare la vita a
compiersi e a dar frutto. Per farlo serve generosità, che ha la stessa
radice di generare. La relazione educativa o è generativa (amplia il
naturale desiderio di far esperienza della realtà) o è degenerativa
(chiude il desiderio, annoia, spegne il coraggio e la curiosità). La
generosità educativa è anch’essa professionalità e non volontariato. È
generoso chi genera, cioè afferma la vita dell’altro come necessaria e
si impegna, come può, al suo compimento, come i bastoncini con cui mia
nonna sosteneva le piantine incerte, perché crescessero verso la luce,
approfondendo così le loro buie radici. Non c’è compimento senza
concepimento, non c’è generazione senza generosità. E una generazione
non generata prima o poi crolla.
Qualche giorno fa mi ha scritto una ragazza
che sarebbe precipitata nel baratro di una malattia se una
professoressa non fosse stata «empatica» e «generosa», affrontandola a
tu per tu alla fine di una lezione. Mi ha chiesto di dar voce alle sue
parole: «Vorrei chiedere a tutti i professori di fermarsi, anche solo un
attimo, di alzare lo sguardo dal registro e guardare negli occhi i
ragazzi. Non limitatevi a segnare l’assenza, ma chiedetevi se veramente
gli studenti sono lì, chiedete l
oro
come stanno, dando peso alle risposte perché, spesso, noi ragazzi
diciamo che va tutto bene, anche quando stiamo morendo dentro. Il vostro
compito non è esclusivamente spiegare, interrogare e valutare. Voi
siete in grado di vedere più lontano dei genitori: a scuola proprio
perché ci si sente invisibili emergono le più piccole debolezze. Avete
idea di quanti ragazzi nuotino controcorrente senza scoprire le proprie
capacità? Quanti credono di essere inutili? Quanti concorrono per un
voto come fossero oggetti? Mi capita di pensare a come sarebbe andata a
finire se quel giorno la mia professoressa non mi avesse fermata e non
mi avesse guardata negli occhi. Forse oggi non sarei qui». Di norma non
si tratta di casi limite, ma di mostrare che ci si sente responsabili
della loro vita, magari con un sincero e sorridente «come
stai?»: portare il peso a volte è semplicemente «dare peso». Un
adolescente si decide a maturare se sente che un adulto vuole farsi
carico della sua vita, perché così scopre che è buona, e il suo coraggio
si attiva vincendo la paura, perché vede un altro impegnato per lui.
Ciò che ci aspettiamo da loro deve essere prima in noi: questo è
educare, e l’istruzione ne è solo una conseguenza. A noi chiedono di
impegnarci per un volto e, solo dopo, per un voto. Un anno scolastico in
cui non cresco in amore e conoscenza della materia e dei ragazzi, per
me è un anno perso.
Il letto da rifare oggi, il primo dell’anno
scolastico, è la manutenzione delle anime. Come noi insegnanti ci
aspettiamo che loro ascoltino noi, possiamo «ascoltare» i loro volti,
perché ascoltare un adolescente è capire ciò che non dice. Come i ponti,
anche le anime possono crollare per incuria.
L’anno scolastico è un viaggio, non è una corsa o una
gara: è un tratto di strada che ognuno percorrerà con i
mezzi di cui dispone e con la propria andatura, e con la certezza che
arriveremo tutti, insieme, al traguardo del prossimo giugno. Quando si concluderà
questo cammino, che chiamiamo anno scolastico, ci sarà
chi avrà ancora energie da spendere, ci sarà chi è affaticato, chi è deluso, chi è provato e chi soddisfatto, pronto a ripartire per nuove mete. Ora però prepariamoci a partire, tutti e insieme. Bentornate e bentornati a tutti. E a chi arriva per la prima volta, buon inizio viaggio insieme.