di Luca Citroni
Quando si parla di adolescenza, di giovani, ma soprattutto di quello
che è il disagio generale che interessa ora più che mai questa fascia di
popolazione, non è possibile non fare qualche riferimento alle istituzioni che dovrebbero essere impegnate in prima linea nella battaglia contro ogni tipo di malessere giovanile.
Stiamo parlando naturalmente di scuola e famiglia.
Dei due pilastri portanti del fare e del pensare pedagogico. Di quelle
istituzioni che da sempre combattono una lunga e insidiosa guerra contro
la difficoltà dell’essere giovane. Ciò nonostante qualcosa negli ultimi
tempi sembra aver reso questa lotta giorno dopo giorno più fiacca e
sempre meno incisiva.
Prendiamo in esame la scuola.
Al giorno d’oggi essa sembra essersi dimenticata di aver a che fare
con quella fase precaria dell’esistenza che è l’adolescenza, in cui un
giovane tra paure e incertezze cammina in equilibrio su di un filo
sottile mosso dal vento, alla ricerca della propria identità.
Bisogna
dire che per far sì che ciò accadesse la scuola si è fatta promotrice,
in passato, di una formazione adeguata sul concetto di sé, di quella
considerazione positiva che è necessario avere e che siamo soliti
chiamare autostima, legata all’accoglimento degli aspetti positivi e di quelli negativi (più comunemente chiamata auto-accettazione), indispensabile per far fronte agli eventi avversi della vita.
Ma non tutto sembra essere andato per il verso giusto.
La scuola di questi tempi sembra non rispettare questi canoni e a
supporto di questa ipotesi, e con dati alla mano, possiamo
effettivamente affermare che qualcosa non funziona. Non è un segreto
dichiarare dunque che i giovani, al giorno d’oggi, si allontanano sempre
più da essa.
Secondo la Commissione Europea sui tassi di abbandono scolastico,
sono sempre di più e in costante aumento i giovani che decidono di
interrompere la propria carriera scolastica. Più specificamente si
afferma che nell’anno scolastico 2007- 2008 si sono avute nella scuola
secondaria di II grado italiana 93.747 interruzioni, di cui 30.419 al
Sud, 18.463 nelle Isole, 17.859 nel Nord-Ovest. Questi dati indicano
quindi che in media il 22,2% dei giovani italiani tra i 15 e i 19 rinuncia alla scuola ancor prima di conseguire il diploma.
Ma se consideriamo alta la percentuale dei giovani che non hanno un
titolo di scuola superiore, è altrettanto alta la percentuale di
italiani che non hanno conseguito l'obbligo di almeno otto anni di
scolarità, come previsto dalle vigenti normative. Sono all’incirca 20 milioni.
Per questo motivo l'Italia occupa uno tra gli ultimi posti nella
classifica riguardante il livello di scolarizzazione in Europa,
lasciandosi dietro di sé solo Turchia e Grecia. Questo disastro
socio-scolastico può trovare spiegazione nel triste primato italiano del
mancato investimento nella cultura e nell'istruzione, e di un
progressivo disinteresse per le nuove generazioni.
Da questi dati emersi ormai da anni, una domanda quindi sorge spontanea: perché i giovani appaiono così disaffezionati alla scuola?
Coloro che si dichiarano soddisfatti del funzionamento della scuola
in effetti sono solo il 7%, mentre la maggior parte dei ragazzi accusa
la scuola, (secondo una ricerca del 2011 condotta da Telefono Azzurro-Eurispes,
associazione che porta avanti da anni indagini sulla condizione dei
giovani in Italia), di diverse mancanze come quella di un più efficace
raccordo con il mondo del lavoro, oltre che l'assenza della funzione
educativa, cioè la tendenza dell'istituzione scolastica a trasmettere solo nozioni e non valori.
Senza dimenticare inoltre la mancata possibilità di socializzazione
usufruendo nel tempo libero e degli spazi scolastici per poter praticare
attività, e infine, ma non ultimo per importanza, la mancanza di
insegnanti comprensivi.
Le cose, naturalmente, non migliorano se dovessimo intraprendere un discorso relativo all’università, dove secondo le stime di AlmaLaurea
il 27% delle matricole non si iscrivono all'anno successivo, così che
l'Italia risulta il Paese europeo con il minor tasso di laureati nonché
quello che investe meno nella ricerca e nell'innovazione. La conseguenza
è che tanti ragazzi rafforzano i propri vissuti di precarietà, spesso
già presenti nella loro struttura di personalità, sviluppando stati
d'animo oltremodo problematici intrisi di ansia e di depressivo
scoraggiamento per il futuro.
In base a queste premesse è possibile trarre un interessante spunto
di riflessione per ragionare su quanto la scuola sia impegnata nella sua
missione educativa, mettendo il punto sugli atteggiamenti spesso fuori
luogo di insegnanti, che troppe volte non sono in grado di ricoprire il
ruolo di educatore. Ruolo che sta alla base della professione dell’insegnante.
A dar manforte a questa tesi, il pedagogista e sociologo lombardo
Umberto Galimberti ci dice che l’autostima e l’auto-accettazione nei
giovani spesso vengono confuse dagli insegnanti come atteggiamenti di
arroganza e presunzione e spinge questi ultimi a mettere in atto
atteggiamenti ostili nei confronti degli alunni che presentano queste
particolarità necessarie. Al contrario nei ragazzi che non presentano
questi aspetti, spesso il professore si sente assolutamente assolto nel
suo ribadire con voti e giudizi negativi quel nulla che lo studente
avverte già per conto suo dentro di sé.
E così, a causa di simili considerazioni che fioriscono dalle
labbra apparentemente innocue dei professori, si allarga e si
approfondisce quella dimensione del vuoto che talvolta porta a gesti
irreversibili.
Quando ciò accade il disinteresse lascia spazio alla meraviglia per
quello che è capitato. Non ci si meraviglia mai della propria
disattenzione ma dell’imprevedibilità di simili gesti in ragazzi che
apparentemente potevano sembrare vivaci e allegri.
Questo perché, nonostante nella letteratura che si studia vengano
descritte nei minimi particolari le pieghe dell’anima, molti inseganti
ancora non sanno distinguere nel riso di un giovane lo spunto della
gioia o la smorfia della tragedia imminente.
Tutto quello di disastroso che può accadere nasce dal fatto che a
oggi sono troppo pochi gli insegnanti che considerano l’istruzione una
diretta conseguenza dell’educazione e non il contrario, e che prima di
istruire, o meglio, prima che ciò sia possibile, bisogna provvedere alla
costruzione di un identità del giovane al quale si vogliono impartire
nozioni. E non identità intesa con il semplice fatto che essi sono in
classe e occupano un determinato spazio, ma intesa come riconoscimento
di sé e soprattutto dell’altro. Se questo riconoscimento dovesse
mancare, allora l’identità di un giovane si costruirà in altro modo, in
altri luoghi fuori dalla scuola dove è possibile sentirsi riconosciuti.
Ed è per questo che devianze di ogni tipo appaiono come forme adeguate
di identificazione.
Questo sembra essere un valido motivo per i giovani di rifuggire dalla scuola.
Questi atteggiamenti si manifestano con vere e proprie fughe dalla
realtà, coadiuvate dall’assunzione di sostanze illecite, o con la
frustrazione che annulla ogni tipo di identità. Questa fuga spesso non
viene presa in considerazione nelle scuole, e viene interpretata come
pigrizia, come disinteresse dell’alunno per le lezioni, senza prendere
in considerazione l’ipotesi che dietro la loro distrazione ristagna un
problema serio che troppo spesso è legato all’annullamento di sé e
all’annichilimento.
La scuola, l’istituzione pedagogica per antonomasia, la quale
dovrebbe conferire senso alla vita di un giovane, nel corso del tempo
sembra esser venuta meno al proprio ruolo, oltre che essersi dimenticata
che istruire è possibile solo se si è in grado di educare, ed educare significa acquisizione del riconoscimento di sé.
Nelle scuole sembra non esistere una vera educazione alle emozioni, e
per questo molti studenti sono spinti ad abbandonare e ad abbandonarsi
agli eccessi di una vita dissipata al di fuori di una realtà educativa
che può e deve salvare dal perdersi.
La scuola si mostra a noi oggi con quel volto irresponsabile di chi
si tiene fuori dai problemi connessi ai processi di crescita. Di chi non
si prende cura della soggettività dei giovani, perché mettervi le mani
non garantisce di poterle tirar fuori immacolate.
È superfluo sottolineare infine quanto la scuola sia composta da
professionisti di prim’ordine impegnati effettivamente nel duro
conflitto educativo, ma è altrettanto superfluo chiarire che questi
ultimi costituiscono una triste minoranza in un contesto sempre più
bisognoso di figure decise a sposare la causa pedagogica.
Per salvarci e per salvare le nuove generazioni in bilico sul ciglio
di un dirupo, sarebbe necessario dunque riflettere con più attenzione
sull’importanza da conferire alla scuola, intesa non più come covo
alternativo alle quattro mura casalinghe, ma come luogo in cui è
possibile e necessario prendere parte al fondamentale processo di
costruzione di noi stessi.
Sarebbe un peccato, anche in questo caso, dare tutto per scontato.