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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

giovedì 27 aprile 2017

Perché la vita con gli adolescenti sembra sempre un estenuante tiro alla fune? Quello che gli adolescenti non dicono

Perché la vita con gli adolescenti sembra sempre un estenuante tiro alla fune? Possibile che i genitori siano sempre sbagliati ai loro occhi? 
Questa lettera è stata scritta da Gretchen L Schmelzer, una psicologa e scrittrice statunitense, e dovrebbe essere inserita tra le letture obbligatorie del manuale del genitore dell’adolescente.

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Caro Genitore,

Questa è la lettera che vorrei poterti scrivere.

Questo conflitto in cui siamo, ora. Ne ho bisogno. Ho bisogno di questa lotta. Non te lo posso dire perché non ho il lessico per farlo e comunque non avrebbe senso quello che direi. Ma ho bisogno di questa lotta. Disperatamente. Ho bisogno di odiarti ora, e ho bisogno che tu sopravviva a questo odio. Ho bisogno che tu sopravviva al mio odiare te, e al tuo odiare me. Ho bisogno di questo conflitto anche se pure io lo detesto. Non importa neanche su cosa stiamo litigando: l’ora di rientro a casa, i compiti, i panni sporchi, la mia stanza incasinata, uscire, restare a casa, andare via di casa, vivere in famiglia, ragazzo, ragazza, non avere amici, avere cattivi amici. Non importa. Ho bisogno di lottare con te su queste cose e ho bisogno che tu lo faccia con me.

Ho disperatamente bisogno che tu mantenga l’altro capo della corda. Che ti ci aggrappi forte mentre io strattono il capo dalla mia parte, mentre cerco di trovare appigli per vivere questo mondo nuovo cui sento di affacciarmi. Prima sapevo chi fossi io, chi fossi tu, chi fossimo noi. Ma ora, non lo so più. In questo momento sto cercando i miei confini, e a volte riesco a trovarli solo quando tiro questa fune. Quando spingo tutto quello che conoscevo al suo limite. Allora io mi sento di esistere, e per un minuto riesco a respirare. E lo so che ti manca tantissimo il bambino dolce che ero. Lo so, perché manca anche a me quel bambino, e a volte questa nostalgia è quello che rende tutto doloroso per me al momento.

Ho bisogno di questa lotta e ho bisogno di vedere che, non importa quanto tremendi o esagerati i miei sentimenti siano, non distruggeranno me, né te. Ho bisogno che tu mi ami anche quando sono pessimo, anche quando sembra che io non ti ami. Ho bisogno che tu ami te stesso, e me, che tu ci ami entrambi e per conto di tutti e due. Lo so che fa male essere antipatici, avere etichette di quello marcio. Anche io provo la stessa cosa dentro, ma ho bisogno che tu lo tolleri, e che ti faccia aiutare da altri adulti per farlo. Perché io non posso in questo momento. Se vuoi stare insieme ai tuoi amici adulti e fare un “gruppo-di-mutuo-supporto-per-sopravvivere-al-tuo-adolescente”, fa’ pure. O parlare di me alle mie spalle, non ho problemi. Basta che non rinunci a me, che non rinunci a questo conflitto. Ne ho bisogno.

Questo è il conflitto che mi insegnerà che la mia ombra non è più grande della mia luce. Questo è il conflitto che mi insegnerà che i sentimenti negativi non significano la fine di una relazione. Questo è il conflitto che mi insegnerà come ascoltare me stesso, anche quando sono una delusione per gli altri.

E questo conflitto particolare, finirà. Come ogni tempesta, sarà spazzata via. E io dimenticherò, e tu dimenticherai. E poi tornerà da capo. E io avrò bisogno che tu regga la corda di nuovo. Di nuovo e di nuovo, per anni.

Lo so che non c’è nulla di intrinsecamente soddisfacente in questa situazione per te. Lo so che probabilmente non ti ringrazierò mai per questo, o neanche te ne darò credito. Anzi probabilmente ti criticherò per tutto questo duro lavoro. Sembrerà che niente che tu faccia sia mai abbastanza. Eppure, io faccio affidamento interamente sulla tua capacità di restare in questo conflitto. Non importa quanto io polemizzi, non importa quanto io mi lamenti. Non importa quanto mi chiuda in silenzio.

Per favore, resta dall’altro capo della fune. E lo so che stai facendo il lavoro più importante che qualcuno possa mai fare per me in questo momento.

Con amore, il tuo teenager.

© 2015 Gretchen L Schmelzer PhD


venerdì 21 aprile 2017

Ciò che mi sta a cuore è la tua felicità.Volersi bene, volere il bene dell'altro.



Rilanciamo qui un articolo pubblicato da Saverio Sgroi sul suo blog "La Sfida Educativa" (qui leggi originale completo: www.lasfidaeducativa.it)


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Che cosa vuol dire “generative occasioni di crescita”? Che cosa dovrebbero essere in grado di generare queste occasioni?
Possiamo trovare la risposta a queste domande a partire proprio dall’etimologia del verbo generare, dal latino genus, che significa nascita, stirpe, discendenza. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, nel loro libro Generativi di tutto il mondo, unitevi!, scrivono: “Generare fa parte di un insieme di termini quali ‘generosità’, ‘genialità’, ‘genitore’ che condividono la stessa radice genus (genere), la quale rimanda a significati quali partorire, germogliare, fabbricare. In sostanza, mettere al mondo. O, più estensivamente, dare vita, far essere.
Se generare ha questo significato, un’occasione generativa è allora un’occasione capace di far nascere nuove risorse, di dare vita nel senso più ampio del termine, ma soprattutto di dare un tipo di vita che porta in sé quella pienezza di senso capace di realizzare l’umano che c’è in ogni persona. E qual è quella realtà che rappresenta per l’uomo la più grande occasione di generatività, se non la relazione? È nella relazione infatti che l’uomo si realizza, incontrando e conoscendo pienamente se stesso, attraverso la conoscenza e l’incontro con l’altro: “Io divento io dicendo tu”, scrive il filosofo Martin Buber.
Pensiamo a quelle relazioni che per noi sono particolarmente significative, come l’amicizia o l’amore; non costituiscono forse le esperienze principali attraverso le quali impariamo ad amare? Oppure pensiamo, in negativo, alla solitudine, che rappresenta l’antitesi della relazione e che probabilmente è la realtà peggiore che una persona possa sperimentare. Il pedagogista Antonio Bellingreri, per spiegare l’importanza dell’empatia, quella qualità che permette di comprendere e sentire il mondo interiore altrui come se fosse il nostro, usa delle parole molto belle che ci aiutano a capire quanto la relazione sia essenziale per una persona: “Se nessuno conoscesse i nostri pensieri e comprendesse il nostro sentire, saremmo consegnati ad una solitudine insuperabile”.
La relazione ci rende pienamente umani, fa fiorire l’umano che c’è in ogni persona. È l’origine stessa della parola che ce lo rivela: relazione deriva dal latino relatus, participio passato del verbo referre, che significa portare indietro, riportare. Essa ci restituisce, attraverso l’altro, qualcosa di noi che solo l’altro può darci e che costituisce un elemento fondamentale per la costruzione della nostra identità. La relazione, tuttavia, ci umanizza solo se è fondata sull’amore, l’unica realtà capace di fare di noi un dono totale e gratuito a un’altra persona, condizione imprescindibile perché una relazione sia generativa.
Quali sono i risvolti di queste considerazioni sul piano dell’educazione, ed in particolare dell’educazione all’amore?
Riprendiamo il titolo dell’incontro ai genitori, che è pure il titolo di queste righe, ed entriamo nel merito di alcune parole che lo compongono: volersi bene, volere il bene. Che cosa significano concretamente queste frasi?
Qualche anno fa chiesi ad un gruppo di ragazzi di dirmi ciò che li aiutava nel rapporto che avevano con i loro genitori; la maggior parte delle risposte furono abbastanza ovvie e scontate: mi trattano da grande, mi danno fiducia, posso parlare con loro di qualunque cosa, credono in me, non mi giudicano, e via dicendo. Solo una ragazza diede una risposta fuori dagli schemi: volersi bene ed essere affettuosi tra loro.
Effettivamente, se ci pensiamo, noi impariamo ad amare nella misura in cui vediamo l’amore nelle persone care che ci stanno accanto e soprattutto se lo sperimentiamo a partire da qualcuno che ci ama incondizionatamente, solitamente i genitori. Sono i genitori – inizialmente la madre, poi il padre – che sono in grado di trasmetterci la certezza che la vita è bella e merita di essere vissuta fino in fondo. È l’abbraccio accogliente dei genitori che ci fa sperimentare l’unicità di essere chiamati per nome ad avere un ruolo attivo nei confronti della realtà. E se “il volersi bene” dei nostri genitori, e quindi la qualità della loro relazione reciproca, è un elemento fondamentale perché noi possiamo comprendere l’essenza dell’amore e integrarla nella nostra vita, è altrettanto vero che la nostra capacità di saper amare è condizionata inevitabilmente dalla relazione che i genitori intrattengono con noi. Quest’ultimo aspetto è di particolare importanza oggi, di fronte allo scoraggiamento che a volte prende i genitori quando la sorgente primaria dalla quale scaturisce l’educazione dei figli – la relazione tra di essi, il loro volersi bene – sia stata inquinata dalla ferita relazionale di quell’amore che ha permesso loro di mettere al mondo i figli. Sono sempre di più le famiglie toccate dalla ferita del divorzio o della separazione, ferita che lascia un segno non solo nella coppia ma anche nei figli, che subiscono la separazione dei genitori quasi sempre senza poter fare nulla per impedirla. Ma, pur nella sofferenza che un’esperienza del genere comporta, una relazione coniugale ferita o in alcuni casi addirittura morta non annulla mai la funzione genitoriale, che rimane per sempre: nessun essere umano sarà necessariamente padre o madre, marito o moglie, fratello o sorella, ma tutti, questo sì, siamo figli di qualcuno che ci ha messo al mondo, di qualcuno che ci ha generati, di qualcuno a partire dal quale prende forma, sempre, la costruzione del senso della nostra vita.
Queste riflessioni valgono particolarmente per l’educazione dell’affettività e della sessualità, che spetta innanzitutto ai genitori; perché non si tratta di dare “istruzioni per l’uso” sul come fare l’amore, ma di educare all’amore, di aiutare i figli a cogliere il nesso che esiste tra l’amore e la sessualità all’interno di una cornice di senso che solo chi li ha generati può illuminare pienamente. È evidente che, se i genitori sono separati, i figli faranno più fatica a comprendere fino in fondo questa cornice di senso; sarebbe ingenuo e non realistico ignorarlo. Ma anche nei casi più difficili e segnati dalla sofferenza il ruolo dei genitori rimane insostituibile, perchè essi sono per i figli la sorgente dalla quale è scaturito l’amore che li ha generati; l’esperienza comune dimostra quasi sempre come, anche se la sorgente fosse ormai asciutta o inquinata da tempo, ignorarla o peggio rifiutarla lascerebbe dentro di sé un vuoto più grande di quello che si sperimenterebbe cercando comunque di trovare un senso a questa situazione problematica e dolorosa.
Volersi bene, quindi, è il presupposto di ogni intervento educativo da parte dei genitori; solo dopo viene il voler bene. Ciò significa che un figlio deve vedere che l’amore tra i genitori viene prima dell’amore che essi hanno per lui; deve comprendere che i genitori prima di essere tali sono coppia e che l’amore per lui è comunque il risultato della sovrabbondanza dell’amore che c’è stato e che c’è tra di essi; la generatività si trasmette tanto più facilmente quanto più chi genera vive in prima persona la dimensione del dono.
Ma “volersi bene” è una frase che si può anche interpretare in senso riflessivo, cioè come il “voler bene a sé stessi”, che è la condizione fondamentale perché si sviluppi la capacità di voler bene agli altri: nessuno potrà amare un’altra persona se prima non ama se stesso, se non raggiunge quella pienezza e quell’equilibrio affettivo nei confronti di se stesso che gli permetterà di vivere relazioni sane e non segnate dal tarlo della dipendenza dall’altro, della ricerca del consenso dell’altro, del bisogno patologico dell’amore dell’altro.
Questo secondo significato delle parole “volersi bene” è altrettanto gravido di conseguenze educative: quanto è importante aiutare i figli a volersi bene, a credere in se stessi, ad acquisire quella sicurezza necessaria per affrontare non solo le relazioni con gli altri ma la vita in generale, il rapporto con la realtà!
Soltanto dopo il “volersi bene” possiamo spendere due parole sulla parte finale del titolo, quel “volere il bene” che rivela tutta la nostra capacità di amare un’altra persona.
Se è vero, come abbiamo visto, che impariamo ad amare solo se qualcuno ci ha amati per primi, ci rendiamo conto di quanto “volere il bene” dei figli influisca sulla loro personalità. Tanto ci sarebbe da dire sul nostro modo di trattare i ragazzi: la loro reazione è spesso condizionata dallo sguardo che poniamo su di loro, da come manifestiamo loro fiducia, in definitiva dal nostro modo di amarli. San Tommaso definisce l’amore una passione, nel senso che si riceve passivamente: noi siamo capaci di amare solo come risposta ad una prima presenza amorosa dell’altro in noi.
Volere il bene dei figli si può manifestare in mille modi, ma la cosa più importante rimane l’impegno messo nell’investire su quelle due dimensioni costitutive della relazione – e l’educazione è sempre una relazione – che sono lo spazio ed il tempo che condividiamo con loro. È difficile pensare di riuscire nel nostro compito educativo se non valorizziamo la dimensione dello spazio, che vuol dire stare con i ragazzi, condividere luoghi fisici ma anche personali – il nostro cuore, la nostra intimità – con loro. E ancora di più, non possiamo educare senza fare affidamento sulla dimensione del tempo: un bravo educatore, come un buon contadino con le sue piante, sa che le persone hanno bisogno di tempo e di cura per maturare; sa attendere che il seme attecchisca e che dia frutto a tempo debito, rispettando i tempi e la libertà di coloro che gli vengono affidati.
Nell’educazione, quindi, dovremmo costantemente rivalutare lo spazio ed il tempo. È vero che queste due dimensioni sono il palcoscenico dove vanno in scena, inevitabilmente, i nostri limiti ma è altrettanto vero che spazio e tempo sono anche la misura dell’amore: è solo donando il nostro spazio ed il nostro tempo che saremo capaci di amare i ragazzi che la vita ci mette accanto perché li accompagniamo lungo la strada del diventare adulti.


Saverio Sgroi, educatore e giornalista pubblicista. Si occupa da oltre 20 anni di attività educative con gli adolescenti, che incontra frequentemente nelle scuole per parlare di educazione dell’affettività e di orientamento universitario. Svolge conferenze e incontri per educatori (genitori e docenti) sul mondo degli adolescenti, sull’affettività, sulla comunicazione genitori-figli e sui social network. Dal 2008 ha fondato e dirige il portale per teenagers www.cogitoetvolo.it

venerdì 14 aprile 2017

I nostri auguri di buona Santa Pasqua



“In questo Santo Giorno diffondete la lieta novella della resurrezione di Gesù non solo con le parole. In ogni istante della nostra esistenza abbiamo il dovere di testimoniare la novella seguendo gli insegnamenti di nostro Signore ed aiutando il prossimo. E’ grazie a questi piccoli gesti ma sinceri che potremmo davvero rendere partecipe il mondo della Resurrezione di Gesù Cristo”

(papa Francesco)

sabato 8 aprile 2017

«Imparate a fare il bene» (Papa Francesco)

Dall'omelia di Papa Francesco in Santa Marta ( 14 marzo 2017)

Qui la versione ufficiale: vatican.va

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La conversione che viene richiesta a ogni cristiano, in particolar modo nel periodo quaresimale, è un percorso impegnativo ma con «regole» molto «semplici» che occorre far proprie «non a parole», bensì nella concretezza della vita. Ed è, soprattutto, un cammino nel quale nessuno è solo: basta lasciarsi «prendere per mano» dal «Padre che ci vuole bene».
Punto di partenza della meditazione è stato l’invito che il profeta Isaia (1, 10.16-20) fa nel passo proposto dalla liturgia della parola: «Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male: imparate a fare il bene. Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».
Due espressioni, ha sottolineato il Pontefice, «attirano l’attenzione» in questo brano: «allontanatevi dal male e imparate a fare il bene». Di fatto, ha detto, è proprio questo «il cammino della conversione: è semplice».
Questa indicazione prende le mosse da ciò che ogni persona vive sulla propria pelle: «Ognuno di noi — ha infatti spiegato Francesco — ogni giorno fa qualcosa di brutto: la Bibbia dice che il più santo pecca sette volte al giorno... Ma il problema sta nel fatto di non abituarsi a vivere nelle cose brutte». Così, ha proseguito, «se io faccio una cosa brutta me ne accorgo e ho voglia di allontanarmi». Dice in proposito Isaia: «Allontanatevi dal male», da «quello che avvelena l’anima, che rimpicciolisce l’anima, che ti fa malato». Quindi ecco il primo atteggiamento richiesto: «allontanarsi dal male».
Ma non basta. Perché poi si legge: «Imparate a fare il bene». E, ha riconosciuto il Papa, «non è facile fare il bene: dobbiamo impararlo, sempre». Fortunatamente c’è il Signore che «insegna». Perciò gli uomini devono fare «come i bambini» e «imparare». Ciò significa che «nella strada della vita, della vita cristiana si impara tutti i giorni. Si deve imparare tutti i giorni a fare qualcosa, a essere migliori del giorno prima». Questa è quindi «la regola della conversione: allontanarsi dal male e imparare a fare il bene». Ha spiegato il Pontefice: «Convertirsi non è andare da una fata che con la bacchetta magica ci converta: no! È un cammino. È un cammino di allontanarsi e di imparare». È un cammino che richiede «coraggio, per allontanarsi» dal male, e «umiltà per imparare» a fare il bene. E che, soprattutto, ha bisogno di «cose concrete».
A questo punto, dopo avere individuato cosa fare nel cammino della conversione, il Papa è passato a riflettere sul “come” agire. E, sempre seguendo la lettura del brano di Isaia, si è innanzitutto soffermato su una «bella parola» detta dal Signore: «Su, venite, discutiamo». Il Signore, cioè, «prima, ci invita, dopo, ci aiuta». E usa la parola “su”, ovvero «la stessa parola che ha detto ai paralitici: “Su, alzati. Prendi la tua barella e vattene”. Su. La stessa parola che ha detto alla figlia di Giairo, la stessa parola che ha detto al figlio della vedova alla porta di Naim: su».
Dio sempre invita ad alzarsi, ma sempre «ci dà la mano per andare su». E lo fa, ha detto il Pontefice, con la caratteristica dell’umiltà. Nel passo di Isaia si legge: «Venite e discutiamo». Cioè: Dio «si abbassa, come uno di noi, il nostro Dio è umile». Ecco quindi la logica che porta alla conversione: «prima l’invito, poi l’aiuto, il camminare insieme per aiutarci, per spiegarci le cose, per prenderci per mano e portarci per mano». E «il risultato di questo», ha sottolineato Francesco, «è una cosa meravigliosa: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve”». Il Signore, cioè, «è capace di fare questo miracolo», quello «di cambiarci. Non da un giorno all’altro: no, no, no! Con la strada. Nella strada».
Questa quindi, ha suggerito il Papa, «è la strada della conversione quaresimale. Semplice. È un Padre che parla, è un Padre che ci vuole bene, ci vuole bene bene. E ci accompagna». L’unica cosa che ci viene richiesta è «di essere umili». Gesù infatti dice: «Chi si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Perciò, ha concluso il Pontefice: «Se tu lasci che il Signore ti prenda per mano e ti porti avanti, su, e ti alzi e vai con lui, con questo gesto di umiltà sarai esaltato, sarai perdonato, sarai reso bianco». Così, ha detto, «cresceremo come buoni cristiani».