La serie tv “Tredici” grida il bisogno di relazioni vere: l’assordante vuoto di amore che spezza quelle vite fragili
Pubblichiamo qui l'articolo a firma di Alessandro D'Avenia pubblicato su "La Stampa" del 18/05/2017
Qui l'originale : articolo prof 2.0
Stavamo dialogando attorno al
canto dell’Inferno dantesco dedicato al conte Ugolino, ed evidenziavo il
fatto che Dante presenta un padre incapace di dare pane e parole ai
suoi figli, condannati a morire da innocenti.
In un verso Dante descrive la tragedia della paternità sovvertita,
quando Ugolino, guardando i volti dei quattro innocenti imprigionati con
lui, dice di aver visto se stesso: sia perché vede in loro lo stesso
dramma dell’inedia che li condanna a morte, sia perché vede in loro il
frutto delle sue colpe. Moriranno a causa sua, e lui non se ne era reso
conto, se non in quel momento, quando ormai è troppo tardi. Partendo da
qui siamo arrivati a parlare di Thirteen reasons why: titolo di un
fortunato libro negli Usa (Tredici in Italia), nonché di una ancora più
fortunata serie televisiva che spopola tra i ragazzi e che, sollecitato
da loro e interessato a capire dove cercano le parole e le immagini per
raccontarsi, ho guardato nelle ultime settimane.
Una ragazza si suicida, ha 17 anni, ma prima di mettere in atto il
suo gesto estremo, incide 13 audiocassette, dedicate ciascuna alle
tredici ragioni che l’hanno portata a togliersi di mezzo, ogni ragione
corrisponde all’amico o amica, a cui è dedicato quel nastro. Così a poco
a poco emerge la verità di una storia di violenza verbale e fisica,
ampliata anche da chi si riteneva innocente. Sorprende scoprire che solo
l’ultima cassetta è dedicata a un adulto, lo psicologo della scuola,
che aveva parlato con la ragazza il giorno stesso del suo suicidio e non
era stato capace di andare oltre quanto richiesto dal codice del suo
lavoro.
Il ritornello che caratterizza tutta la serie è che la verità non è
sempre quella che ci costruiamo per giustificare le nostre azioni e che
il male che commettiamo o il bene che tralasciamo di fare hanno lo
stesso peso.
Tutto ciò avviene ad una ragazza a cui non manca niente per essere
felice, ma una somma di gesti malvagi o di gesti omessi da chi le vuole
bene fa crollare una identità in formazione e quindi fragile. Questo il
fascino esercitato sul pubblico di adolescenti: la percezione della
distanza tra come ci si sente e come è la realtà, due dati che nella
vita di un ragazzo sono spesso molto distanti e che portano gli adulti a
non capire, liquidando le loro sofferenze ora come «paturnie dell’età»,
ora come «cose che un giorno capirai», ora come «la vita è fatta così,
impara a starci».
Nella serie infatti l’assordante assenza è quella degli adulti,
distantissimi anche se vicini, a volte incapaci di ascolto o di capire
come ascoltare (la famiglia del protagonista deve formulare il proposito
di fare almeno un pasto insieme dopo tre settimane…), a volte incapaci
loro stessi di essere adulti.
È il protagonista della serie, un diciassettenne, a dover dire in
modo chiaro allo psicologo: «Dovremmo imparare a volerci bene, in modo
migliore». Ha capito che non basta il rispetto, non bastano le regole,
che il consumismo relazionale è un veleno e che per volersi bene bisogna
conoscere gli altri, conoscere il bene per gli altri, perché una
relazione è vera solo quando si impegna a realizzare il bene dell’altro e
ad accogliere l’altro come bene, non basta vivere sotto lo stesso tetto
(familiare, scolastico…). È l’adolescente protagonista che impara che
il bene dell’altro va fatto, a ogni costo, ed è lui a dover educare gli
adulti sul tema.
Sono gli effetti di una società individualista, in cui i ragazzi non
si sentono più parte di una storia, ma si riducono ad atomi incapaci di
comprendere la realtà, perché nessuno gliene offre le parole adatte, ci
si limita a insegnare delle regole per la vita e non cosa ci sia di
buono da fare nella vita e a cosa servano quelle regole. Lo spaesamento
narrato in questa serie solleva sin dal primo minuto la ferita aperta
della società di oggi, quella americana sicuramente più avanti della
nostra, ma neanche tanto: in un tessuto sociale disgregato e
utilitarista, l’individuo è solo e non vale nulla se non si procura da
solo il suo valore. La vita inserita in un sistema di performance in cui
si è tanto quanto si ha, fa, appare, non c’è il tempo per costruire
sull’essere, cosa che potrebbe avvenire in famiglia, unico luogo in cui
essere accettati per quello che si è e non per quelle altre tre cose. Ma
la famiglia non ha tempo per fare questo, oppressa anche lei da un
meccanismo soffocante. Non c’è tempo per le relazioni buone, il tempo
che permette di far emergere le ferite e le gioie, che va a costruire
quel nucleo forte di amore da cui un bambino ed un adolescente imparano a
guardare ed affrontare il mondo.
Il tempo delle relazione è spesso riempito da oggetti, silenzi, altre
performance… che non lasciano lo spazio e i minuti necessari ad
abbassare le difese e ad aprirsi. Persino l’assurda moda della Blue
Whale – un gioco perverso che si conclude con il suicidio del
partecipante – può riempire il vuoto di senso della propria esistenza,
tanto da trasformarla in una performance sino alla autodistruzione: ci
sarebbe da chiedersi come mai neanche la scuola sia più in grado di
offrire un orizzonte di senso a questi ragazzi che vi passano per
tredici anni tre quarti delle mattine. Continuiamo a produrre
«educazioni a» affollando la loro testa di altre regole, impossibili da
vivere perché non c’è una vita interiore, personale, unica e
irripetibile, una storia in cui inserirle. Gli individui non hanno
storie, le storie le hanno i ragazzi quando sono figli, nipoti, alunni…
La passione per questa serie da parte dei ragazzi la tradurrei così:
«Insegnateci a voler bene davvero, ridateci relazioni significative e
non consumistiche, trovate il tempo da impegnare per noi come la cosa
più importante che vi è capitata nella vita, guardateci, andate oltre le
apparenze, consegnatemi il testimone della vita perché io cominci la
mia corsa e sappia perché sto correndo».
La ragazza che si suicida dopo aver parlato con lo psicologo si ferma
fuori dalla porta a vetri di lui e rimane ferma sperando che lui la
insegua, andando oltre lo stretto necessario della chiacchierata appena
affrontata. Lei afferma nella sua registrazione che se lui fosse uscito
non si sarebbe uccisa, ma lui risponde al cellulare che aveva squillato
già più volte durante il colloquio, interrompendo l’attenzione totale
dovuta ad una ragazza in crisi, e dimentica quello che lei gli ha appena
confidato: la mia vita non vale niente. Sceglie ciò che sembra più
urgente, invece di quello che è importante (quanto tempo rubato alle
relazioni dalla nostra iper-connessione). Tredici sono le ragioni per
cui una ragazza si toglie la vita: e sono persone, cioè relazioni. Una è
la ragione che le unifica tutte: la mancanza d’amore. L’amore è dare
valore alle persone, e il valore sì dà solo quando si dona il proprio
tempo a curare la relazione con l’altro, costi quel che costi. Dare
tempo quando si è in tempo, altrimenti come Ugolino vedremo sul volto
dei ragazzi ciò che noi stessi, senza rendercene conto, abbiamo
provocato. Ma sarà troppo tardi.