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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

lunedì 20 aprile 2020

Annamaria Bax: "Educare al tempo del coronavirus"

Il Coronavirus ci ha stravolto le abitudini. Stiamo cambiando radicalmente tutto quello che facciamo: come lavoriamo, svolgiamo l’esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari. Ma questa non è solo l’attualità perché lo scenario di oggi pare destinato a cambiarci anche il futuro.

“Il mondo è cambiato molte volte e sta cambiando di nuovo. Tutti noi dovremo adattarci a un nuovo modo di vivere, di lavorare e di creare relazioni. La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito, e lo farà presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana o addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più. E come per tutti i cambiamenti, ci saranno alcuni che ci perderanno più degli altri, e saranno quelli che hanno già perso troppo”, spiega Gordon Lichfield, direttore del Mit Technology Review.

In uno scenario come questo, così improvviso e così drammatico, ognuno è chiamato a fare la sua parte: dall'agire responsabilmente osservando regole e divieti invocati dall'autorità sanitaria al dare il proprio contributo nel settore di vita che gli è più prossimo. E’ una chiamata innanzitutto morale. E, fra i tanti, penso alla scuola che sta dando prova di grande coraggio e abnegazione. E’ il suo ennesimo banco di prova che, ancora una volta, affronta con dignità e competenza. Eh sì perché la scuola, nonostante la vita così complessa che la caratterizza, i problemi e gli affanni molteplici che l’attraversano, gli investimenti e le risorse che negli anni hanno subito fasi alterne non sempre rassicuranti, si conferma una indispensabile comunità educante e formativa, secondo la migliore tradizione pedagogica che ne ha fatto, per tanti anni, un modello internazionale.

L’ho premesso: i problemi ci sono e sono tanti, anche in questa fase che stiamo vivendo e che ha indotto la scuola a ripensarsi mediante la didattica a distanza; problemi di infrastrutture insufficienti in molte aree del paese, di scarsa dotazione di strumenti multimediali per alcuni studenti e famiglie, di scelte formative che non sempre hanno privilegiato o ampliato la cultura digitale dei docenti. Sotto questi aspetti, mi auguro che ne usciremo tutti – dal mondo della scuola ai cittadini al decisore politico – rinnovati e convinti a progettare e investire per il nostro futuro, compreso quello della scuola, con maggiore consapevolezza e lungimiranza.

Ciò detto, torno a sottolineare l’importanza grandiosa del compito che la scuola sta assolvendo in un momento come questo: quello di coltivare la relazione educativa ininterrottamente dando un senso nuovo all’apprendere, durante un tempo vuoto, quasi sospeso, che però ci aiuterà molto a crescere. E’ difficile sostituire il dialogo educativo che si nutre di presenze, di sguardi, di gesti, di toni di voce con la tecnologia, per quanto raffinata e indispensabile. È evidente che nessuna didattica a distanza potrà veicolare il calore di un gesto, di un abbraccio, la presenza rassicurante dell’insegnante come pure il suo messaggio di rimprovero se necessario: mille sfumature di un rapporto fatto di gesti, sguardi, parole resi plastici dalla vicinanza, che acquistano senso nella prossimità poichè incrociano occhi e pensieri.

E allora lo sforzo è quello di costruire un dialogo diverso che, seppur costretto a rinunciare alla presenza, non abbandona però la ricerca dell’altro ricorrendo, per questo, a tutte le forme alternative disponibili comprese le nuove tecnologie. E dal Ministero fino alle case editrici più accreditate, tutti hanno suggerito e messo a disposizione strumenti, piattaforme, piste di ricerca, materiali di lavoro.

Tuttavia l’obiettivo di fondo non è quello di replicare, in digitale, la vita di classe che resta per sua natura insostituibile, quanto piuttosto la possibilità di mantenere in vita il dialogo diretto tra gli insegnanti e i loro allievi, da vivere all’inizio tra l’inedito e il sorprendente ma poi come un impegno sereno e speciale attraverso cui scoprire nuovi contenuti e nuovi significati, scrutare le diverse possibilità di esprimersi, sempre con il desiderio di ascoltare e farsi ascoltare. E soprattutto di ritrovarsi, ogni mattina. Come sempre. Non può mancare in questi giorni la presenza dei docenti, per alimentare il filo conduttore di un rapporto educativo diretto, che fa star bene bambini e ragazzi in un tempo quasi indecifrabile. E’ questo, adesso, il compito più importante. Lo sostiene e lo testimonia anche una mamma speciale con la sua lettera aperta rivolta agli insegnanti e postata sul suo profilo Facebook. Parlo della dottoressa Elena Borsotti, medico rianimatore presso un ospedale lombardo. Di seguito le sue parole, struggenti e lucidissime. “Sono un anestesista rianimatore e lavoro in terapia intensiva con pazienti Coronavirus gravissimi. Tutto il personale sanitario è impegnato a tempo pieno in questa terribile emergenza. E’ una battaglia quotidiana e durissima che richiede uno spiegamento immenso di mezzi e risorse sia umane che materiali e che mette a dura prova sia il fisico che la mente. Alcuni di noi sono già o saranno contagiati. Alcuni di noi non vedranno la fine dell’epidemia. Ma questo è il nostro lavoro e lo facciamo con anima e corpo.

Ma sono anche una madre. La mia unica figlia è una vostra studentessa. Questa lettera aperta vuole essere un invito a continuare a esserci, nonché una richiesta di aiuto se non un lascito morale. Il personale docente ha un ruolo educativo fondamentale, non solo in termini di pura didattica, ma anche e soprattutto nel senso più ampio di riferimento, guida e formazione di individui adulti. Ora più che mai la vostra presenza è fondamentale.

Come noi ci prendiamo cura dei nostri pazienti, voi oggi ancor più di prima siete indispensabili nel prendervi cura dei nostri ragazzi, della nostra generazione futura, perché siete chiamati all’arduo compito di contenere i danni psicologici che questa epidemia ha ed avrà sugli adolescenti. Siete i loro compagni di viaggio in questo tempo sospeso. Nella difficile fase evolutiva di transizione, che è l’adolescenza, caratterizzata di base da profonde incertezze ed insicurezze e dal bisogno di prendere le distanze dalle figure genitoriali, è necessaria la presenza di punti di riferimento adulti solidi e sicuri di cui potersi fidare e con cui confrontarsi. Alcuni ragazzi avranno la fortuna di passare più o meno indenni attraverso questa tragedia perché sapranno reinventarsi; alcuni avranno l’occasione per scoprire parti di sé nascoste. Ma altri invece dovranno confrontarsi con dolorosi lutti, con la perdita, con la mancanza, con lo smarrimento.

Voi siete i punti di riferimento in un momento di profonda incertezza sul futuro. Con il vostro esserci attivamente attraverso il coinvolgimento, la discussione, l’analisi della situazione, la comprensione, il conforto, il supporto, potete favorire quel senso di continuità e sicurezza così necessario in adolescenza. I nostri ragazzi hanno bisogno di sentirsi soggetti attivi e partecipi in una situazione che purtroppo si trovano a dover subire. Voi siete le figure adulte attraverso le quali questo bisogno può essere soddisfatto. Nel poco tempo in cui io sono a casa, quando non crollo sfinita sul letto, guardo mia figlia, ed attraverso lei guardo tutti gli adolescenti. Per chi è giovane e con una vita di fronte, il concetto della malattia e della morte è qualcosa di molto lontano. Ora la malattia e la morte sono prepotentemente entrate nelle loro giovani vite. Per alcuni solo come parole e paure, per altri purtroppo come realtà e dolore. Fuori dalla porta di casa, da cui i nostri ragazzi uscivano con gioia e senso d’indipendenza e di libertà, adesso c’è un mostro invisibile, che può attaccare chiunque silenziosamente. In un’età in cui la socializzazione, la frequentazione dei coetanei e la vita fuori dalle mura domestiche sono fondamentali e necessarie, adesso c’è una vita di reclusione domiciliare. Tutte le attività esterne sono precluse. Sulle città incombe un silenzio inquietante ed innaturale. Per molte famiglie la permanenza in casa potrà essere momento di arricchimento e riavvicinamento, per alcune potrà essere fonte di conflittualità e fratture.

In questo contesto innaturale alcuni si troveranno oltre che prigionieri anche vittime. Nei profondi occhi azzurri di mia figlia vedo un’angoscia in più, quella di chi ha uno o entrambi i genitori direttamente impegnati in questa battaglia. Sono occhi privati della presenza parentale, in cui leggo la paura per me quando esco di casa e il sollievo quando rientro, occhi sempre indagatori alla ricerca dei segnali di stanchezza, di tristezza, occhi impotenti alla ricerca della verità nascosta, in uno stato di allerta continuo. Come i suoi, mille altri occhi hanno lo stesso sguardo. Noi genitori quotidianamente vi affidiamo quanto di più prezioso possediamo: i nostri figli.

Come madre vi ringrazio per la vostra presenza come adulti di riferimento e vi incoraggio nel proseguire il vostro ruolo formativo. Come anestesista rianimatore il mio cuore al lavoro sarà più leggero sapendo che altre figure importanti si stanno occupando non solo della didattica, ma anche della formazione umana e dell’integrità psicologica di mia figlia e di tutti i ragazzi loro affidati. Quando questa terribile tragedia che si sta consumando sarà finita, quando si rientrerà alla cosiddetta normalità, i vostri studenti ritorneranno da voi. Ma non saranno gli stessi di prima. Voi sarete fondamentali nell’assisterli nella loro ripresa, fondamentali nell’aiutarli a mantenere la fiducia in loro stessi, a superare le loro angosce, a riparare le loro ferite. Sarete più che mai fondamentali nel compito di continuare a formare adulti solidi. Grazie di cuore”.

Vorrei chiudere soltanto con una esortazione: gli italiani ringrazino commossi tutti coloro che in questa tragedia si stanno prendendo cura, in modo diverso, dei loro concittadini, provvedendo a risanare i corpi martoriati oppure a nutrire, a sollevare le anime e le menti di bambini e ragazzi ora disorientati.

Articolo pubblicato su In Terris (qui versione originale)

giovedì 9 aprile 2020

Perché mi hai abbandonato, la storia del Messiah di Handel

Il 6 aprile, per la rubrica "Ultimo banco" il professore e scrittore Alessandro D'Avenia ha pubblicato questo articolo sul corriere della Sera (qui versione originale dal suo sito) che qui riproponiamo: 

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«Spense la luce, avanzò a tentoni nella camera da letto e si lasciò cadere sul giaciglio: le lacrime sgorgarono. Soltanto dormire, solo dimenticare, non essere. In preda all’angoscia giaceva accasciato sul letto. Nulla poteva più dargli consolazione, perché Dio l’aveva abbandonato ed estromesso dal sacro fiume della vita!». 

Così Stefan Zweig descrive la disperazione del grande compositore Georg Friedrich Händel, in uno dei magistrali racconti di Momenti fatali, libro che narra gli istanti in cui grandi uomini incontrarono il loro destino. Per Händel avvenne in una soffocante notte di agosto del 1741: la vena creativa era prosciugata, nessuno gli commissionava nuovi lavori e i soldi erano finiti. 

A 56 anni, senza musica, era perduto e voleva morire: «In un accesso di collera pronunciò le parole di Colui che moriva sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”». Parole che mi fanno pensare a un amico solo e in fin di vita a causa del virus; e mi ricordano quei momenti in cui sembra di aver perso tutto: l’ispirazione, la fiducia, la speranza, la vicinanza degli altri e di Dio.

Questo abisso è in realtà un «passaggio» (questo significa Pasqua in ebraico): anche Cristo sperimenta il muro invalicabile della solitudine, ma lo trasforma in apertura. Il Figlio infatti chiede al Padre perché l’abbia abbandonato con le parole iniziali del profetico Salmo 21, che non sono un urlo disperato, ma l’atto di fiducia di chi, non potendo più confidare nelle proprie forze, si affida, come mostrano le sue ultime parole: «Padre, nelle tue mani metto la mia vita». Voler ricevere la vita dal Padre: questa è la fede, dono dato a chiunque accetti di non potersela dare da solo. 

Quando perdiamo ciò su cui puntiamo di più (amore, affetti, carriera), la vita ci si mostra nella sua nuda fragilità e: o ci si perde o ci si ritrova una volta per sempre, come accadde a Händel. In preda all’angoscia del suo Getsemani personale, si alzò ed entrò nello studio: sul tavolo c’era una busta dimenticata. Gliel’aveva recapitata un amico poeta, era il testo per una composizione sacra, che solo lui poteva musicare: «Alle prime parole tremò. “Comfort ye”, così iniziava. “Consolati!”: emanava un potere magico da questa parola, anzi no, non una parola ma una risposta, la risposta di Dio, che scendeva dai cieli fino al suo cuore dolente. «Consolati», resuscita l’anima al suono di questa parola creatrice, generatrice! Non aveva finito di leggere e già le parole si scioglievano in melodia e canto. Quale gioia, le porte si erano spalancate: sentiva di nuovo in musica!». Dio aveva risposto proprio a lui, che finalmente lo riconosceva come Fonte dell’unica cosa in cui credeva: la musica. 

E così dalle parole inattese dell’amico sgorgò il Messiah, capolavoro noto a tutti perché almeno una volta ne abbiamo sentito il portentoso Alleluia corale. Per tre settimane Händel si «abbandonò» alla creazione, dimenticando il giorno e la notte, come accade quando l’eterno apre un passaggio nella storia attraverso quella porta che solo noi possiamo aprirgli. Quando gli chiesero di donare a malati e carcerati i profitti della prima (il 13 aprile del 1742), rispose: «No, non voglio denaro per quest’opera, non ne accetterò mai, io che ne sono debitore a un Altro. Apparterrà per sempre ai malati e ai reclusi, perché io stesso ero infermo, e mi ha risanato, ero prigioniero, e mi ha redento». Così fu fino al 6 aprile (oggi) del 1759 quando, 74enne, cieco e malato, presagendo il «passaggio» finale, volle dirigere di persona il Messia: era il suo a Dio. Pochi giorni dopo, il 14 aprile, sabato santo, entrava nella vita eterna dalla porta che s’era aperta con la sofferta bellezza della sua opera.

La Pasqua è proprio l’opera che Dio fa per restituirci la somiglianza con Lui: essere creatori di vita. La cosa di cui più sono grato a Dio è infatti che posso attingere sempre alla fonte da cui sgorgano l’inventiva, l’iniziativa, il coraggio tipici di chi è innamorato, anche se non ne sono all’altezza. Noi ci realizziamo portando a compimento le potenzialità della vita (nel morire Cristo dice «Tutto è compiuto») nostra e altrui, ciascuno nel suo ambito, ma le nostre energie creative sono spesso bloccate. Fatti per ricevere e dare vita (creare e crescere hanno la stessa radice), quando creiamo qualcosa di vero, bello e buono, anche minimo, cresciamo e facciamo crescere il mondo. Se invece siamo preda di forze distruttive, tendiamo a strappare la vita a cose e persone: de-cresciamo e facciamo de-crescere il mondo. La Pasqua serve a ritrovare la gioia di «fare la vita», in e attorno a noi, diventando noi stessi il «passaggio» attraverso cui l’Amore entra nella storia, grazie a ciò che creiamo. Così fu per Händel, che salvò se stesso e tanti uomini abbandonati, attraverso la musica che pensava di aver perso. In realtà aveva perso Dio, non la musica: ascoltare per credere. Auguri!