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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

martedì 30 gennaio 2018

ALESSANDRO D'AVENIA: l'educazione non è un addestramento ma un incoraggiamento alla realtà.


Ogni lunedi, su "Corriere della Sera", il prof. Alessandro D'Avenia pubblica un suo intervento sull'eterna lotta tra genitori e figli, con particolare attenzione al tema educativo in adolescenza.

La rubrica si intitola "Letti da Rifare" ed offre molti spunti di riflessione proprio sul tema dell'educazione.

Oggi proponiamo una sintesi dell'intervento di lunedì 29 gennaio, che è possibile leggere interamente qui:






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L’educazione non si riduce a un mero adattamento o addestramento alla realtà, significa piuttosto incoraggiare, aiutando a eliminare le illusioni della conoscenza di sé che portano un adolescente a sottovalutarsi o sopravvalutarsi, a portare nella realtà qualcosa di nuovo, con tutti i rischi di fallire che questo comporta. L’adattamento alla realtà fine a se stesso ingabbia i ragazzi in una selva di regole che recintano la vita e da cui, così facendo, si libereranno acriticamente e violentemente o di cui diverranno prigionieri apatici. Aiutare a crescere vuol dire indicare perché vivere, per poter abbandonare la comoda posizione fetale e assumere quella eretta di chi esplora: chi di noi non ha almeno una piccola cicatrice generata dagli «spigoli» incontrati in giovane età? Come diceva Nietzsche: «Un uomo dotato di un perché può affrontare quasi qualsiasi come». Ma dove è il perché? Perché vivo? Per chi vivo? In assenza di un progetto riempiamo la loro vita di regole senza un gioco, o li illudiamo di potere giocare senza che ci siano regole.

(...........)

i ricordo di una ragazza stufa delle approssimative lezioni di italiano di una docente svogliata e che recuperava ponendo domande a un professore di un’altra classe, durante l’intervallo. Decise di cambiare sezione, benché fosse al quarto anno di superiori. Tutti gli adulti di riferimento (genitori, preside, altri docenti) privilegiavano la via della sicurezza: sei alla fine, lascia perdere, tieni duro. Lei invece perseguiva la via della salvezza, perché voleva coltivare la sua passione. La incoraggiai a fare il grande passo.
Mi scrisse alla fine dell’anno successivo, felice, per l’esito brillante della maturità e per il senso di efficacia, autonomia, sfida che quell’avventura le aveva dato.

La vita era nelle sue mani e non poteva rovinare i suoi talenti per quieto e disperato vivere. Aveva affrontato la paura (altrui prima che sua): per questo era maturata davvero, non certo per l’esame. «Racconta di quella volta che hai ricevuto un dono che ti ha fatto felice»: così recitava il titolo di un tema assegnato a un dodicenne qualche settimana fa. Che cosa vi aspettereste? Quale oggetto? Quale videogioco? Queste le sue parole: «Mi ricordo un fatto avvenuto cinque anni fa. Era sera e stava piovendo, mia madre e mio padre dovevano uscire, mio fratello era a un allenamento e non sarebbe tornato prima delle 21.15. Dato che erano le 20.40 ho pensato che avrebbero chiamato qualcuno per tenermi tranquillo e mettermi a letto, invece mio padre mi ha comunicato che, a parer suo, io fossi abbastanza grande da poter passare un pezzo di serata da solo.
La mamma non era molto d’accordo ma poi acconsentì.

Questo è stato uno dei regali più belli della mia vita e quei 35 minuti mi hanno fatto sentire importante e mi hanno fatto capire il senso della fiducia e il fatto che le persone accanto a me si accorgessero che stavo diventando autonomo».
Forse bastano 35 minuti per sapere ciò che diceva un personaggio shakespeariano: «se l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte» e non il contrario. Se provassimo, a casa, a scuola, a incoraggiare questa autonomia con piccoli o grandi responsabilità che diano ai ragazzi senso di autonomia, efficacia e accettazione degli eventuali fallimenti? Se invece di riempire le loro tasche di oggetti rassicuranti, riempissimo le loro vite di progetti rischiosi?

giovedì 25 gennaio 2018

27 gennaio, giornata della memoria della Shoah. Un protagonista: Viktor Frankl

"Trattate le persone come se fossero
ciò che dovrebbero essere 
e aiutatele a diventare ciò che sono capaci di essere" 
(J.W. von Goethe)


E' difficile pensare che questa frase sia il centro della riflessione del Dott. Viktor Frankl, riflessione di grande utilità per ogni educatore: E' difficile pensarlo in ragione delle vicende umane che il Dott. Frankl ha vissuto, da cui è comunque uscito con una grande fiducia nell'uomo 



Chi è Viktor Frankl: nato a Vienna nel 1905 in una famiglia ebrea benestante e secondo di tre fratelli, fu educato dal padre Gabriel con un forte senso di giustizia ed equità. Laureatosi, approfondisce la sua formazione neurologica e dirige il "padiglione delle suicide" nell'ospedale psichiatrico Am Steinhof, dove apre anche un suo studio privato. Ma l'annessione dell'Austria alla Germania, avvenuta nel 1938, ed il successivo ingresso delle truppe naziste a Vienna, fa cambiare radicalmente radicalmente la vita del Dott. Frankle. Impossibilitato alla fuga, decide di trasferirsi nel reparto di neurologia del Rothschildspital, dal quale è in grado di ostacolare, insieme a Potzl, il programma di eutanasia dei pazienti psichiatrici di Hitler. Nel 1941 ottiene il tanto desiderato visto per l'espatrio, ma piuttosto che fuggire da solo negli Stati Uniti decide di restare con i suoi genitori in Austria e dove sposa un'infermiera di nome Tilly Grosser. Nel 1942, poco dopo la loro unione, Frankl venne deportato, insieme a tutti i suoi familiari, prima nel lager di Theresienstadt e successivamente ad Auschwitz. Da qui egli viene poi trasferito a Kaufering III, e infine a Turkheim.
La sua esperienza nei lager nazisti fu terribile e viene anche colpito dal tifo petecchiale che lo riduce in fin di vita. Proprio durante questa esperienza, nasce la sua intuizione ritenuta più significativa: l'importanza della ricerca di senso nel proprio vissuto, che definisce "autotrascendenza", ossia l'orientamento dell'esistenza umana al di la di sé, verso qualcosa che non è se stessa; i prigionieri che avevano più possibilità di sopravvivere erano quelli che si orientavano verso il futuro, verso un senso che avrebbe trovato realizzazione nel futuro. Per quanto riguarda Frankl, due erano i desideri che aveva: il primo era quello di pubblicare il manoscritto perduto ad Auschwitz Arztliche Seelsorge ed il secondo era di riabbracciare l'amata Tilly, che aveva deciso di seguirlo in quello che credeva un campo di lavoro chiedendo esplicitamente di essere deportata con lui. Per quanto riguarda la sua famiglia, il padre Gabriel muore tra le sue braccia, e Viktor non riceve notizie della madre Else e della moglie fino alla metà del 1945, dato che era stato separato da loro durante la deportazione. Dopo lunghe ricerche apprende della scomparsa di entrambe, a cui si aggiunge quella del fratello Walter. Queste notizie lo provano profondamente.
Dopo la liberazione, Frankl ritorna a Vienna, dove diventa primario del policlinico neurologico, mantenendo la carica per 25 anni. Nell'aprile del 1945, appena rientrato a Vienna, Frankl scrisse in solo 9 giorni "Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager", ovvero "Uno psicologo nei lager", raccontando la sua deportazione e le crudeltà subìte, ma anche le sue osservazioni sulla forza di volontà dimostrata da coloro che erano riusciti a trovare un senso alla loro esistenza. La prima edizione venne pubblicata nella primavera del 1946 in forma anonima e non ebbe successo. La seconda edizione firmata da Frankl e intitolata "Dire sì alla vita, nonostante tutto. Uno psicologo nei lager" è diventato un saggio che ha venduto 10 milioni di copie e tradotto in 33 lingue. A queste prime pubblicazioni ne succederanno molte altre. Al periodo 1945-1949 risalgono le pubblicazioni che costituiscono le basi dell'analisi esistenziale e della logoterapia di cui Frankl è il fondatore. Avviene dunque quella che egli definì la "svolta copernicana", sia per ciò che concerne la psicoanalisi, che nella sua stessa vita: prendere consapevolezza di come la motivazione principale dell'uomo non sia il principio del piacere (Freud), né la volontà di potenza (Adler), bensì la volontà di significato, il desiderio di trovare un senso, uno scopo per la propria vita. Vivere significa prendersi la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi che l'uomo si trova di fronte e di adempiere ai compiti che la vita pone al singolo.
Nel luglio del 1947 si sposa con Eleonore Schwindt, e divulga il suo pensiero in numerose conferenze in Austria e all'estero, principalmente negli Stati Uniti. Un significativo riconoscimento dell'importanza della sua tecnica terapeutica arriva nel 1970, a San Diego dove nasce il primo "Istituto di Logoterapia". Viene invitato anche in trasmissioni radiofoniche, e pubblica oltre 600 articoli che costituiscono, insieme ai pensieri espressi nei contatti epistolari mantenuti con i familiari ancora in vita, una sintesi della sua concezione della psicoterapia. Il suo impegno continua fino al 1996 quando tiene la sua ultima conferenza a Vienna, nonostante i gravi problemi derivanti da una malattia progressiva agli occhi. Vive la sua vecchiaia serenamente convinto che “si matura nella stessa misura in cui si invecchia” finché la morte lo raggiunge nella sua città natale nel settembre dell'anno successivo.

sabato 20 gennaio 2018

Non lasciamoli soli! - L'intervento di Papa Francesco a Roma, 19 giugno 2017

Il tema dell'educazione e del rapporto genitori-figli sono sempre stati a cuore del Santo Padre. E così, l'inaugurazione del convegno pastorale diocesano (Roma, 19 giugno 2017) Papa Francesco ha parlato di adolescenza, geniotri ed educazione. RIportiamo qui la sola parte centrale di suo interesante intervento, che è possibile leggere in modo integrale qui: vatican.va

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CONVEGNO PASTORALE DIOCESANO SUL TEMA
“NON LASCIAMOLI SOLI! 
ACCOMPAGNARE I GENITORI NELL’EDUCAZIONE DEI FIGLI ADOLESCENTI”

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Roma, Basilica di San Giovani in Laterano
Lunedì, 19 giugno 2017

 
3. In movimento
Educare gli adolescenti in movimento. L’adolescenza è una fase di passaggio nella vita non solo dei vostri figli, ma di tutta la famiglia – è tutta la famiglia che è in fase di passaggio –, voi lo sapete bene e lo vivete; e come tale, nella sua globalità, dobbiamo affrontarla. E’ una fase-ponte, e per questo motivo gli adolescenti non sono né di qua né di là, sono in cammino, in transito. Non sono bambini (e non vogliono essere trattati come tali) e non sono adulti (ma vogliono essere trattati come tali, specialmente a livello di privilegi). Vivono proprio questa tensione, prima di tutto in sé stessi e poi con chi li circonda.[1]
Cercano sempre il confronto, domandano, discutono tutto, cercano risposte; e a volte non ascoltano le risposte e fanno un’altra domanda prima che i genitori dicano la risposta… Passano attraverso vari stati d’animo, e le famiglie con loro. Però, permettetemi di dirvi che è un tempo prezioso nella vita dei vostri figli. Un tempo difficile, sì. Un tempo di cambiamenti e di instabilità, sì. Una fase che presenta grandi rischi, senza dubbio. Ma, soprattutto, è un tempo di crescita per loro e per tutta la famiglia. L’adolescenza non è una patologia e non possiamo affrontarla come se lo fosse. Un figlio che vive la sua adolescenza (per quanto possa essere difficile per i genitori) è un figlio con futuro e speranza. Mi preoccupa tante volte la tendenza attuale a “medicalizzare” precocemente i nostri ragazzi. Sembra che tutto si risolva medicalizzando, o controllando tutto con lo slogan “sfruttare al massimo il tempo”, e così risulta che l’agenda dei ragazzi è peggio di quella di un alto dirigente.
Pertanto insisto: l’adolescenza non è una patologia che dobbiamo combattere. Fa parte della crescita normale, naturale della vita dei nostri ragazzi. Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia e desolazione. Inquadriamo bene i nostri discernimenti all’interno di processi vitali prevedibili. Esistono margini che è necessario conoscere per non allarmarsi, per non essere nemmeno negligenti, ma per saper accompagnare e aiutare a crescere. Non è tutto indifferente, ma nemmeno tutto ha la stessa importanza. Perciò bisogna discernere quali battaglie sono da fare e quali no. In questo serve molto ascoltare coppie con esperienza, che se pure non ci daranno mai una ricetta, ci aiuteranno con la loro testimonianza a conoscere questo o quel margine o gamma di comportamenti.
I nostri ragazzi e le nostre ragazze cercano di essere e vogliono sentirsi – logicamente – protagonisti. Non amano per niente sentirsi comandati o rispondere a “ordini” che vengano dal mondo adulto (seguono le regole di gioco dei loro “complici”). Cercano quell’autonomia complice che li fa sentire di “comandarsi da soli”. E qui dobbiamo stare attenti agli zii, soprattutto a quegli zii che non hanno figli o che non sono sposati… Le prime parolacce, io le ho imparate da uno zio “zitello” [ridono]. Gli zii, per guadagnare la simpatia dei nipoti, tante volte non fanno bene. C’era lo zio che ci dava di nascosto le sigarette, a noi… Cose di quei tempi. E adesso… Non dico che siano cattivi, ma bisogna stare attenti. In questa ricerca di autonomia che vogliono avere i ragazzi e le ragazze troviamo una buona opportunità, specialmente per le scuole, le parrocchie e i movimenti ecclesiali. Stimolare attività che li mettano alla prova, che li facciano sentire protagonisti. Hanno bisogno di questo, aiutiamoli! Loro cercano in molti modi la “vertigine” che li faccia sentire vivi. Dunque, diamogliela! Stimoliamo tutto quello che li aiuta a trasformare i loro sogni in progetti, e che possano scoprire che tutto il potenziale che hanno è un ponte, un passaggio verso una vocazione (nel senso più ampio e bello della parola). Proponiamo loro mete ampie, grandi sfide e aiutiamoli a realizzarle, a raggiungere le loro mete. Non lasciamoli soli. Perciò, sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti. Noi vediamo in tante parrocchie, che hanno questa capacità di “prendere” gli adolescenti…: “Questi tre giorni di vacanza, andiamo in montagna, facciamo qualcosa…; o andiamo a imbiancare quella scuola di un quartiere povero che ha bisogno…”. Farli protagonisti di qualcosa.
Questo richiede di trovare educatori capaci di impegnarsi nella crescita dei ragazzi. Richiede educatori spinti dall’amore e dalla passione di far crescere in loro la vita dello Spirito di Gesù, di far vedere che essere cristiani esige coraggio ed è una cosa bella. Per educare gli adolescenti di oggi non possiamo continuare a utilizzare un modello di istruzione meramente scolastico, solo di idee. No. Bisogna seguire il ritmo della loro crescita. E’ importante aiutarli ad acquisire autostima, a credere che realmente possono riuscire in ciò che si propongono. In movimento, sempre.

 4. Una educazione integrata
Questo processo esige di sviluppare in maniera simultanea e integrata i diversi linguaggi che ci costituiscono come persone. Vale a dire insegnare ai nostri ragazzi a integrare tutto ciò che sono e che fanno. Potremmo chiamarla una alfabetizzazione socio-integrata, cioè un’educazione basata sull’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’agire (le mani). Questo offrirà ai nostri ragazzi la possibilità di una crescita armonica a livello non solo personale, ma al tempo stesso sociale. Urge creare luoghi dove la frammentazione sociale non sia lo schema dominante. A tale scopo occorre insegnare a pensare ciò che si sente e si fa, a sentire ciò che si pensa e si fa, a fare ciò che si pensa e si sente. Cioè, integrare i tre linguaggi. Un dinamismo di capacità posto al servizio della persona e della società. Questo aiuterà a far sì che i nostri ragazzi si sentano attivi e protagonisti nei loro processi di crescita e li porterà anche a sentirsi chiamati a partecipare alla costruzione della comunità.
Vogliono essere protagonisti: diamo loro spazio perché siano protagonisti, orientandoli – ovviamente – e dando loro gli strumenti per sviluppare tutta questa crescita. Per questo ritengo che l’integrazione armonica dei diversi saperi – della mente, del cuore e delle mani – li aiuterà a costruire la loro personalità. Spesso pensiamo che l’educazione sia impartire conoscenze e lungo il cammino lasciamo degli analfabeti emotivi e ragazzi con tanti progetti incompiuti perché non hanno trovato chi insegnasse loro a “fare”.
Abbiamo concentrato l’educazione nel cervello trascurando il cuore e le mani. E questa è anche una forma di frammentazione sociale.
In Vaticano, quando le guardie si congedano, io li ricevo, uno a uno, quelli che si congedano. L’altro ieri ne ho ricevuti sei. Uno a uno. “Cosa fai, cosa farete…”. Ringrazio per il servizio. E uno mi ha detto così: “Io andrò a fare il carpentiere. Vorrei fare il falegname, ma farò il carpentiere. Perché mio papà mi ha insegnato tante cose di questo, e mio  nonno anche”. Il desiderio di “fare”: questo ragazzo è stato bene educato con il linguaggio del fare; e anche il cuore è buono, perché pensava al papà e al nonno: un cuore affettivo buono. Imparare “come si fa”… Questo mi ha colpito.


5. Sì all’adolescenza, no alla competizione
Come ultimo elemento, è importante che riflettiamo su una dinamica ambientale che ci interpella tutti. E’ interessante osservare come i ragazzi e le ragazze vogliono essere “grandi” e i “grandi” vogliono essere o sono diventati adolescenti.
Non possiamo ignorare questa cultura, dal momento che è un'aria che tutti respiriamo. Oggi c’è una specie di competizione tra genitori e figli; diversa da quella di altre epoche in cui normalmente si verificava il confronto tra gli uni e gli altri. Oggi siamo passati dal confronto alla competizione, che sono due cose diverse. Sono due dinamiche diverse dello spirito. I nostri ragazzi oggi trovano molta competizione e poche persone con cui confrontarsi. Il mondo adulto ha accolto come paradigma e modello di successo l’ “eterna giovinezza”. Sembra che crescere, invecchiare, “stagionarsi” sia un male. E’ sinonimo di vita frustrata o esaurita. Oggi sembra che tutto vada mascherato e dissimulato. Come se il fatto stesso di vivere non avesse senso. L’apparenza, non invecchiare, truccarsi… A me fa pena quando vedo quelli che si tingono i capelli.
Com’è triste che qualcuno voglia fare il “lifting” al cuore! E oggi si usa più la parola “lifting” che la parola “cuore”! Com’è doloroso che qualcuno voglia cancellare le “rughe” di tanti incontri, di tante gioie e tristezze! Mi viene in mente quando alla grande Anna Magnani hanno consigliato di fare il lifting, ha detto: “No, queste rughe mi sono costate tutta la vita: sono preziose!”.
In un certo senso questa è una delle minacce “inconsapevoli” più pericolose nell’educazione dei nostri adolescenti: escluderli dai loro processi di crescita perché gli adulti occupano il loro posto. E troviamo tanti genitori adolescenti, tanti. Adulti che non vogliono essere adulti e vogliono giocare a essere adolescenti per sempre. Questa “emarginazione” può aumentare una tendenza naturale che hanno i ragazzi a isolarsi o a frenare i loro processi di crescita per mancanza di confronto. C’è la competizione, ma non il confronto.

martedì 9 gennaio 2018

Grande successo per lo spettacolo ispirato a "La Fabbrica del Cioccolato"

Un bel giorno nella misteriosa fabbrica di cioccolato di Willy Wonka viene diramato un avviso: chi troverà i cinque biglietti d’oro nelle tavolette di cioccolato riceverà una provvista di dolci bastante per tutto il resto della sua vita e potrà visitare l’interno della fabbrica. Chi sarà il vincitore?

E' proprio la "Fabbrica del Cioccolato", la storia scritta da Roald Dahl e da cui sono stati estratti ben due diversi film, lo spettacolo a cui si sono ispirati i nostri bambini e bambine che, sotto l'attenta regia della teacher Maria Tassinari, hanno messo in scena il loro spettacolo in occasione della recita natalizia, mercoledì 20 dicembre al cinema teatro Italia (San Pietro in Casale).

Grande successo e grande entusiasmo per questo lavoro preparato con grande attenzione e determinazione dai bambini, a cui hanno collaborato anche diversi genitori aiutando a preparare le scene, i costumi e l'allestimento tecnico.

Un grazie a tutti e un grazie speciale a Cassa di Risparmio di Cento che ha fattivamente contribuito alla produzione dello spettacolo.

giovedì 4 gennaio 2018

Ridateci i maestri di una volta, l'editoriale di Gian Antonio Stella (da "Corriere della Sera" 3 gennaio '18)


Ripubblichiamo qui l'editoriale di Gian Antonio Stella  pubblicato su Corriere della Sera del 3 gennaio 2018 che propone una riflessione sulle modalità educative che spempre più spesso nascondono la realtà.  
  
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Tiravano su i ragazzi guardando la realtà in faccia. Come Alberto Manzi che, per conquistare i 94 alunni della sua classe, in un riformatorio, sfidò a pugni il più strafottente: chi vinceva comandava

di Gian Antonio Stella

Ma che maestri hanno, a volte, i nostri scolaretti? Di qua una che, come ricordava ieri Claudio Magris «ha sostituito Gesù con Perù» in una canzoncina «per non offendere alunni di altre religioni, soprattutto musulmani». Una «sciocchezza» nei confronti degli stessi islamici con l’idea «che possano sentirsi offesi da una canzone cristiana di Natale in un Paese di cultura cristiana». Di là un maestro della Carnia che, ha scritto su La Nuova Venezia Giovanni Cagnassi, ha inviato una lettera preoccupatissima ai responsabili di una mostra sull’antico Egitto a Jesolo lido. I suoi nipoti, spiegava, ci erano andati in visita e al rientro «il più piccolo di 9 anni ha disegnato un antico egizio con il fallo eretto spiegandomi che lo aveva visto in una teca. Per questo come insegnante vi chiedo di coprire o togliere la statuetta in questione dalla visione dei miei alunni, suoi coetanei, quando parteciperanno alla visita scolastica prenotata da tempo».
La statua «itifallica» del dio Min del terzo secolo avanti Cristo è una testimonianza preziosa che dà lustro all’esposizione «Egitto. Dei, Faraoni, Uomini» e richiama un’antichissima devozione agli dei e alle dee della fertilità radicata in tutti i continenti? Non importa: «Non posso esimermi come educatore dall’interrogarmi se sia prematuro mostrare simili rappresentazioni della corporeità umana in palese esibizione erotica». O la statuina viene quindi «mutandata» (nella scia del «Braghettone» che coprì le pudenda michelangiolesche nella Cappella Sistina) o lui non ci porterà i suoi alunni. Scusate: era così difficile usare di qua il Natale e di là la mostra per spiegare «prima» ai bambini perché gli italiani sono affezionati al bambin Gesù e perché l’antichità è piena di statuine dedicate alla fertilità? Aridateci i maestri d’una volta. Che tiravan su i ragazzi guardando la realtà in faccia. Come Alberto Manzi che, per conquistare i 94 alunni (novantaquattro: dai 9 ai 17 anni!) della sua classe, in un riformatorio, sfidò a pugni il più strafottente: chi vinceva comandava. O il supplente de «il Cuore» di De Amicis che alla parola «ciechi» prese tutti di petto: «Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s’ha intorno e che si tocca; essere immersi in una oscurità perpetua…». E i ragazzi, statene certi, venivano su più diritti.