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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

giovedì 30 marzo 2017

"Se i docenti diventano indecenti" di Alessandro D'Avenia

Chiedete ad un ragazzo di oggi quali lezioni frequenta volentieri: vi citerà il docente che li mette alla prova, che li sfida, che dà molto ed esige molto, che si occupa della loro crescita e non solo dei loro voti, il docente che amano e odiano, e che sceglierebbero autonomamente, se fosse loro consentito.

Leggi qui l'originale: oggiscuola.it
di Alessandro D'Avenia


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Un libro li definisce «sdraiati». I ragazzi di oggi. Una generazione che non sa tenere la schiena dritta, ma spalma sulla vita la propria spina dorsale liquida. Avrei la schiena come la loro se mi avessero dotato di una comodissima sedia a sdraio, dalla quale avrei mandato a quel paese chi dopo averla fornita ora, pentito, la rivuole indietro. Moralismo. Nostalgia del tempo andato. Paternalismo sornione.

Gli sdraiati invece li vedo tendersi quando offri loro qualcosa di cui non possono fare a meno e che abbiamo sostituito con surrogati tecnologici, assenza di «no» e limiti, ma soprattutto di mete non autoreferenziali e narcisistiche.

Raddrizzano la schiena quando al moralismo sostituisci la morale: facendo loro toccare cosa è bene e cosa è male, non a parole; quando alla nostalgia del tempo andato sostituisci la nostalgia del futuro, sudando lo stesso loro sudore, non metaforico; quando al paternalismo sostituisci la paternità, difendendoli dalle paure ma sfidando le loro risorse migliori, dedicando loro tempo al di fuori di quello stabilito.

La spina dorsale cresce dritta a chi è teso verso la luce, come quelle piante a cui mia nonna metteva accanto un bastone fissato con uno spago, che le lasciava abbastanza libere da slanciarsi verso l’alto e non troppo libere da curvarsi su se stesse. Come si slanciavano verso il sole affondando proporzionalmente le loro radici! Dopo un po’, eliminati spago e bastone, rimanevano dritte, perché la fisica vuole che più ti slanci in alto più hai bisogno di radici profonde. Incolpare la pianta di non avere radici salde è incolpare se stessi, ma questo è duro da ammettere, e la colpa finisce sempre per cadere fuori dal recinto della responsabilità personale: loro, la tv, il consumismo, la scuola, la playstation (che abbiamo comprato con la sdraio).

Solo la vita e l’esempio educano, le parole non bastano. Non basta dire tieni su la schiena, se non additiamo il panorama da guardare oltre la soglia. Il nostro modo di vivere autoreferenziale lancia spesso proclami contraddittori rispetto alla schiena dritta che esigiamo. I bambini allo stadio fanno lo stesso che fanno i padri: e ci scandalizziamo pure? O li multiamo?

C’è però chi reagisce, cito da una delle tante lettere di contenuto analogo che ricevo: Mi dica, le piace essere un professore? Pensa che abbia ancora un valore, per un professore, essere tale? Io sinceramente odio la scuola e non perché non ami studiare, imparare cose nuove, ma perché mi sento soffocare, quando la prospettiva è entrare in classe ed ascoltare passivamente persone che nel loro mestiere non mettono impegno, che sembrano sempre sull’orlo di una crisi isterica, che non fanno amare ciò che si vantano di insegnare.

Ho solo diciotto anni, che ne so io della vita, di come si svolge un mestiere? Potrebbe chiedermi e dirmi che tutto ciò è una scusa per giustificare il fatto che di studiare non mi va. Sì è vero, non mi va di studiare un argomento che non mi appassiona. Ma non dovrebbe essere proprio quello, il ruolo del professore? Far amare la cultura? Far amare lo studio? No, perché quello che nel mio liceo si fa è imparare a memoria. Ma a Lei non sembrano sbagliati i verbi che vengono usati per capire se si è studiato o meno? Interrogare e ripetere. Io li odio questi due verbi, Professore, perché interrogare ha perso il suo significato latino, è diventata una minaccia, e alla domanda «La misoginia nella Medea di Euripide» – che neanche è una domanda a dirla tutta – si deve ripetere, come un automa, quello che il professore ha «pazientemente» dettato in classe per un’ora (50 minuti, nei primi dieci era a prendere il caffè col collega di turno) e le altre cinquanta pagine che invece avresti dovuto imparare a memoria a casa.

Io invece vorrei che un professore mi chiedesse: «Ma tu della Medea cosa hai capito?», «Ma perché secondo te Manzoni ha rinnovato completamente il genere del romanzo?», «Ma quindi a te cosa è rimasto di Hegel?», e vorrei lo facesse con quella luce che si ha negli occhi quando si fa qualcosa che si ama, per guidarci verso la maturità, quella vera, verso la capacità di guardare con occhio critico la realtà, quella luce che fa scattare dentro la curiosità, una volta a casa, di aprire il libro e capire «Ma quindi cosa voleva trasmettermi D’Annunzio, con tutta ’sta pioggia?».

Io guardo i miei professori e in loro vedo tante cose, tranne l’amore verso il proprio mestiere. Più che odiare la scuola, io odio i miei professori. Preferisco passare i pomeriggi a scrivere o visitare una mostra che hanno appena allestito o andare in quella libreria, un po’ nascosta tra le vie del centro, dove posso comprare un libro e sedermi a leggerlo.

Lei la vede intorno a sé la voglia di insegnare, di trasmettere qualcosa a coloro ci si aspetta siano il futuro del nostro Paese? Le vede le loro anime accese, vive, piene di voglia di fare, di dire? Questa non è una lettera sdraiata, ma la lettera ben dritta di una ragazza all’ultimo anno di liceo, delusa, polemica, in uscita con un cumulo di nozioni in testa e la certezza di sapere chi non diventare. Eppure ne voleva di cultura, di quella che trasforma la vita, cultura indicata infatti come «luce che fa scattare». Non basterà rispondere che la vita è la fatica di fare «anche» ciò che non appassiona, perché lei la passione non l’ha vista proprio e le sembra di dover fare «solo» ciò che non appassiona, la morte in vita per chiunque, figuriamoci per un diciottenne.

Chiedete ad un ragazzo di oggi quali lezioni frequenta volentieri: vi citerà non l’«in-decente» (professore amicone, complice, che parla di sé e non fa lezione), non l’«in-docente» (colto ma freddissimo), ma il docente che li mette alla prova, che li sfida, che dà molto ed esige molto, che si occupa della loro crescita e non solo dei loro voti, il docente che amano e odiano, e che sceglierebbero autonomamente, se fosse loro consentito. I ragazzi si sdraiano nella scuola degli «in-decenti», e odiano quella degli «in-docenti» (letteralmente coloro che non-in-segnano anche se conoscono in modo ineccepibile la materia). L’in-docenza si nasconde dietro la ripetizione, la formula vuota, il dovere per il dovere, evita la vita, non la seduce, non per portare gli sdraiati verso noi stessi (triste e inutile beffa), ma per raccontare loro il sole, attraverso la luce di occhi posati sì sulle carte ma altrettanto sulle vite, perché raggiungano – singolarmente e insieme – la loro altezza. Prima di discettare sul ridurre di un anno la scuola italiana, per uniformarci (verso il basso) al resto dei Paesi europei (se la sognano una scuola con contenuti come la nostra), dovremmo provare a costruire scuole in cui sia consentito scegliere insegnanti decenti e docenti, come prova a fare qualsiasi mamma che vuole iscrivere il figlio in prima elementare.

sabato 4 marzo 2017

Educare, non solo istruire. Contro il buonismo di Stato

Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere, è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale

di Susanna Tamaro
da articolo : www.corriere.it
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Non so quanti spettatori abbia avuto il nuovo reality della Rai Il Collegio. Non essendo un’esperta di format non so dire quanto di quello che ho visto sia reale o sia invece frutto di una forzatura drammaturgica degli sceneggiatori. Certo che ad assistere alle prestazioni scolastiche di questo drappello di simpatici adolescenti c’è da rimanere davvero turbati. Davanti a una cartina muta dell’Italia, le Marche sono state scambiate per la Puglia e le città citate qua e là senza cognizione alcuna della loro reale posizione. Per non dire della lezione di storia, in cui i ritratti di Mazzini e Cavour risultavano praticamente sconosciuti ai più, o della lezione di matematica in cui un problema di quinta elementare degli anni 60 è stato risolto solo da una ragazza che ha ammesso di amare la matematica. Che questa non sia finzione ma triste realtà ce lo confermano le statistiche internazionali che ci hanno visto precipitare nelle graduatorie Ocse di due punti in un solo anno, relegandoci al 34° posto su 70 paesi. Ci difendiamo a stento nella matematica, mentre nel campo delle lettere e delle scienze l’ignoranza risulta pressoché assoluta. Del resto anche i dati nazionali ci confermano che il numero di persone capaci di leggere un testo e di capirne il significato sia calato di anno in anno in maniera esponenziale. 
Si è parlato molto della Buona Scuola come di una riforma determinante, purtroppo — posto che tutte le riforme sono un segno di buona volontà e perfettibili — non sembra per il momento essere riuscita ad intaccare la degradata fossilizzazione del nostro sistema educativo. Introdurre i tablet, le mitiche lavagne interattive, facendo credere che l’àncora di salvezza stia nella modernizzazione informatica è un po’ come mettere del cerone su un volto ormai devastato dalle rughe. E inoltre, come ben spiega Adolfo Scotto di Luzio nel suo bel saggio Senza educazione, per non far sì che le nostre aule si trasformino in un museo del modernariato l’informatizzazione richiederebbe un enorme impegno economico, impossibile da sostenersi senza il contributo di realtà esterne.
È indubbio che il primo passo verso questo inarrestabile degrado sia da far risalire alla riforma compiuta negli anni ottanta del secolo scorso. Fu allora che la scuola elementare, in omaggio al mondo anglosassone, venne trasformata in primaria, avviandola verso una rapida «liceizzazione», abolendo l’insegnante unica per venire incontro ai sindacati, da sempre gli unici veri interlocutori del Ministero. Così i pensierini sono stati sostituiti dall’analisi del testo, la grammatica — «sul qui e sul qua l’accento non va», ricordate? — è stata rimpiazzata da schede prestampate; al posto delle ciliegie da sommare e delle torte da frazionare sono comparse le corrispondenze biunivoche e le entità equipotenti. Per non parlare del riassunto e del ripetere un testo a memoria: cancellati con un colpo di spugna in quanto richiedevano troppo sforzo. In un mondo che insegue ormai unicamente ciò che è fluido, l’idea che esistano dei principi fondanti nel sapere — gli elementi, appunto, cioè qualcosa di universale e stabile nel tempo — non può che venir considerata obsoleta e anacronistica.
Il disastro dei ragazzi che confondono le Marche con la Puglia, che scrivono, come mi è capitato di leggere in una tesi di laurea «s’eppure» oppure «io, vado, a casa,» e che davanti ad una foto di Mussolini balbettano incerti sul nome. «Maurizio?» e poi si giustificano dicendo, a pochi mesi dalla maturità, «veramente non l’abbiamo mai fatto…» è un disastro partorito da un sistema che, in nome del lassismo, della demagogia, del vivi e lascia vivere «tanto l’importante è il pezzo di carta», ha costantemente abbassato il livello delle pretese. È anche colpa di un sistema politico che ha sempre considerato il Ministero dell’Istruzione come un jolly da tirar fuori dal cappello nei momenti di bisogno, una botta ai sindacati, una botta ai concorsi, un po’ di fumo soffiato in faccia alle famiglie per mascherare che sotto il fumo non c’era nessun arrosto e avanti così, inventando pompose rivoluzioni che, alla prova dei fatti, si sono mostrate, per lo più, drastiche involuzioni. Delle famose tre «I» — Informatica, Inglese, Impresa — che cos’è rimasto? Aule intasate di computer obsoleti e generazioni di ragazzi che dopo tredici anni di studio della lingua e grammatica inglese sono totalmente incapaci di sostenere anche una minima conversazione dell’agognato idioma. La «I» di impresa non la cito neppure perché il più delle volte la sua stessa realizzazione è stata falciata sul nascere da una burocrazia ottusamente elefantiaca e dai capestri delle banche.
Diciamolo una volta per tutte. Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere dai suoi studenti — e dunque di educare — è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale — ripetizioni, corsi estivi, etc. Per tutti gli altri non c’è che la deriva del ribasso, l’andare avanti di inerzia con la costante consapevolezza che impegnarsi o non impegnarsi in fondo sia la stessa cosa.
L’educazione è la vera e grande emergenza nazionale. Non essere gravemente allarmati e non fare nulla per risolverla vuol dire condannare il nostro Paese ad una sempre maggior involuzione economica e sociale. Che adulti, che cittadini, che lavoratori saranno infatti i ragazzi di queste generazioni abbandonate alla complessità dei tempi senza che sia stato loro fornito il sostegno dei fondamenti? Sono stati cresciuti con il mito della facilità, del tirare a campare, ma la vita, ad un certo punto, per la sua stessa natura pretenderà qualcosa da loro e gli eventi stessi inevitabilmente li porranno davanti a delle realtà che di facile non avranno nulla. Allora, forse, rimpiangeranno di non vere avuto insegnanti capaci di prepararli, di educarli.
Già, educare! Termine reietto, spauracchio dell’abuso e della diseguaglianza. Non sarà per questo che in Italia il nostro Ministero, diversamente che in Inghilterra, è chiamato dell’Istruzione non dell’Educazione? Sono la stessa cosa? Non proprio, perché istruire - cito il dizionario della lingua italiana — vuol dire «far apprendere qualcuno le nozioni di una disciplina» mentre educare vuol dire «formare, con l’insegnamento e con l’esempio, il carattere e la personalità dei giovani, sviluppando le facoltà intellettuali e le qualità morali secondo determinati principi». Educare richiede l’esistenza di un principio di autorità, principio ormai scomparso da ogni ambito della vita civile. Chi educa oggi? Le poche famiglie che caparbiamente si intestardiscono a farlo si trovano a vivere come salmoni controcorrente. Il «vietato vietare», con la rapidità osmotica dei principi peggiori, ormai è penetrato ovunque, distruggendo in modo sistematico tutto ciò che, per secoli, ha costituito il collante della società umana.
Dalle maestre chiamate per nome, ai professori ai quali si risponde con sboccata arroganza, al rifiuto di compiere qualsiasi sforzo, all’incapacità emotiva di reggere anche una minima sconfitta: tutto il nostro sistema educativo non è altro che una grande Caporetto. Agli insegnanti validi — e ce ne sono tanti — viene pressoché impedito di fare il loro lavoro, anche per l’aureo principio, tipicamente italiano, per cui un eccellente ombreggia i mediocri che non vogliono essere messi in discussione nella loro quieta sopravvivenza. Abbiamo il corpo insegnante più anziano d’Europa, il gran caos demagogico dei concorsi ha paralizzato il naturale ricambio generazionale e la miserabile retribuzione della categoria ha trasformato l’insegnamento in una sorta di sine cura per molti.
In realtà insegnare è un lavoro altamente usurante, richiede energie enormi, intelligenza della mente e del cuore, passione per la materia e una visione costruttiva del futuro. Fin da subito dunque migliori risorse economiche andrebbero destinate proprio alla classe docente, cominciando a restituire agli insegnanti, oltre alla dignità, l’autorità necessaria per educare veramente le giovani generazioni. Solo così la scuola tornerà ad essere una possibilità di crescita offerta a tutti, e non solo ai pochi privilegiati che si possono permettere la fuga dal demagogico lassismo dello Stato.