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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

venerdì 29 giugno 2018

ALESSANDRO D'AVENIA: amare impegna tutta la persona, testa e cuore, anima e corpo

Immagine dal film: "I passi dell'amore (A walk to remember, 2002)"
Questa settimana pubblichiamo l'intervento del prof. Alessandro D'Avenia, che dalle pagine della sua rubrica settimanale "Letti da  Rifare" (Corriere della Sera) ha rilanciato il tema dell'educazione affettiva per gli adolescenti di oggi.
L'intervento originale è sul suo sito : www.profduepuntozero.it
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«Ho capito che considerare l’amore in un certo modo non era corretto, sono riuscita a trarre conclusioni che non avrei saputo dove ‘pescare’ e a mettere in ordine sentimenti contrastanti che gestivo in modo sbagliato». Sono le parole di una diciottenne che aveva ultimato il libro che ho dedicato alle storie d’amore di 36 donne, collegate da quella che tutte le contiene: Orfeo ed Euridice. Avevo avvertito la necessità di esplorare e rivivere narrativamente la domanda che tutto muove: l’amore salva? Non avrei pensato che ne scaturisse un’educazione sentimentale in forma di romanzo a racconti di generi diversi, l’amore li usa tutti (da tragico a comico, da epico a lirico). Sull’ispirazione hanno pesato considerevolmente le frequenti crisi e domande che, in tema di relazioni, ricevo da ragazzi allo sbaraglio in un ambito della vita in cui, stranamente, pensiamo non ci sia nulla da insegnare e imparare (nessuno può fare una casa senza conoscere la fisica delle forze, invece per fare casa in due chissenefrega della fisica delle relazioni). I ragazzi sono lo specchio del mondo adulto e l’immagine «amorosa» che rimandano è precisa: il divorzio tra testa e cuore genera amori senza testa o senza cuore, cioè a dolorosa scadenza.
 
Un’evanescente educazione sentimentale, semplificata in sessuale (ridotta sovente a paure e contromosse: come non metterla/rimanere incinta e cosa fare se accade), lascia l’essenziale della vita in balia dell’improvvisazione e del così fan tutti. Gli adolescenti, educati dalla rete più che dai genitori, vivono l’amore come prestazione di un io debole e bisognoso di valere qualcosa, a colpi di emozioni e di mi piace. È la loro versione del precariato relazionale da app di incontri. Amare è essere scelti come trofei da caccia o scegliere a partire dalla consapevolezza di sé? Una preda attira predatori, invece libertà è avere il coraggio di non piacere a tutti i costi e di stare soli («anche solo sono completo»). Non siamo merci da bancone digitale, né alcolizzati emotivi, ma persone desiderose di amare ed essere amate stabilmente. Quando gli studenti dicono «non ho il ragazzo/a», ricordo loro che non si possiede e non si è posseduti da nessuno. Amare è scegliere l’altro, non possederlo, è «voler bene» all’altro non «voler star bene» a spese dell’altro. Per questo preferisco il vintage «sono o non sono fidanzato» all’orrendo «esco con qualcuno». Amare impegna tutta la persona, testa e cuore, anima e corpo: richiede quindi il verbo essere.

Le relazioni lasciate alla paura della solitudine e del non essere «abbastanza» imboccano i due vicoli ciechi dell’itinerario amoroso contemporaneo. Da un lato la seducente favola romantica, che fa dell’altro un dio e immagina la vita di coppia come soddisfazione di ogni bisogno: l’altro è il mio destino, il dio che mi salverà da ogni vuoto e caduta. Ma l’amore non è sicurezza emotiva, bensì rischio, esplorazione, perdita dei confini dell’io per creare la regione ignota del noi. Dall’altro lato emerge la narrazione frutto del disinganno della favola romantica evaporata a contatto con l’esperienza: l’amore cinico. In questa versione l’amore è una serie di storie a scadenza, io sono il dio da adorare e l’altro serve finché ne ho bisogno o non mi stanco. L’illusione romantica e il calcolo cinico distillano un efficace veleno per le relazioni: il «narcinismo», parola coniata dalla psicanalista Colette Soler, per indicare la somma di narcisismo (l’altro è usato come specchio per moltiplicare l’ego) e cinismo (l’altro è lo schiavo a tempo dell’ego). L’amore non è più uscita e superamento di sé che libera dal ripiegamento su se stessi, cioè dall’egoismo, causa di ogni fallimento esistenziale. Si è vivi solo se si cresce in amore, invece il narcinismo sottomette l’amore alla sola legge nota al gaio nichilismo: il godimento individuale, finito il quale, nella versione romantica si cercano nuove emozioni in fughe regressive o trasgressive, nella versione cinica l’altro viene sostituito con chi può procurare maggiore soddisfazione.

L’acclamato La la Land, seducente in canzoni e attori, è il film del nar-cinismo relazionale, impasto perfetto di favola e cinismo. Nessuno dei due protagonisti rinuncia a nulla, usa l’altro come doping per la propria «prestazione esistenziale». Quello che resta nel finale è la malinconia del «sarebbe stato bello se avessimo scelto noi», ma la promessa di felicità del noi è solo un’ipotesi dell’irrealtà per l’ego. Emblematico il dialogo nel parco dell’Osservatorio, dove i due, all’inizio, avevano inaugurato il sogno romantico volando tra le stelle: «Dove siamo noi due?», chiede lei riferendosi alla loro crisi, e lui: «Nel parco». Ridono, ma la risposta è perfetta: c’è solo l’istante, nessun progetto o scelta. Il dialogo continua tra un «tu devi mettere tutta te stessa nel tuo sogno» e un «io devo andare avanti nel mio piano». E il noi? Il noi non rientra nel sogno o nel piano. L’altro è servito ora a dopare l’ego emotivo (mi fai stare bene), ora da ultrà per quello carrieristico (fai il tifo per me). È il cortocircuito erotico odierno: vogliamo essere innamorati e restare ego-riferiti. Ma amare è essere noi-riferiti, paradossale scelta di spingere l’ego verso il naufragio, come scriveva Kafka alla sua Milena: «tu mi sei la cosa più cara, amore è che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso». È un coltello misericordioso: il noi libera il sé che, sentendosi amato, abbassa le difese e si lascia sbucciar via l’ego che ingabbia la felicità.

Il sogno romantico e il calcolo cinico si confermano nell’immaginario dominante. Da un lato c’è il «Royal Wedding»: quello di Kate e William è stato trasmesso per 2 miliardi di spettatori, per Harry e Meghan sono giunti a Londra 4 milioni di turisti. La ragazza comune diventa principessa, con tanto di castello: il modello Cenerentola, maggior incasso cinema nel 1950, continua a sedurre. Dall’altro lato c’è il modello Anastasia, protagonista della trilogia delle 50 Sfumature di E.L.James, tra i libri più venduti di sempre, in cui un uomo affermato e ricco, attratto da una giovane studentessa invaghita di lui, la mette sotto contratto sessuale, senza che questo implichi una relazione affettiva: solo prestazioni consensuali ed estreme. Anastasia accetta di essere un oggetto a tempo determinato, una precaria erotica che spera di cambiare e sposare un sadico, ripristinando così il finale delle fiabe. Da questi due poli emerge il vero desiderio: una relazione esclusiva ed estensiva («solo con te e per sempre»). Cenerentola e Anastasia sono illusori estremi che si toccano indicando la via di mezzo smarrita: l’amore che coniuga eros, sogno e quotidiano. Un amore fatto del circolo virtuoso delle due forze relazionali che generano fedeltà a prova di noia nel gioco delle anime e dei corpi: il dono e il bisogno. Il bisogno di sentirsi amati si integra con lo scegliere il bene dell’altro anche quando serve rinunciare a sé, senza che affermare la felicità dell’altro sia annullamento di sé: a massima appartenenza corrisponde massima libertà. Questo amore è il futuro anteriore umano, ci precede come desiderio e ci spinge come promessa: lo vogliamo più di tutto ma è tutto da realizzare, nel noi che ne offre la materia prima. Solo quando dono e bisogno si equilibrano accade l’inatteso: il per sempre diventa quotidiano, non è sogno irrealizzabile né incubo di impegni e fatiche. L’amore apre le 24 ore, si nutre del tempo invece di rimanerne vittima: diventa forte come la morte perché, al pari della morte, ferma il tempo, non in funerea fissità ma in stabilità creativa. Il noi supera l’io senza distruggerlo, anzi lo conferma, cioè lo rende stabile, più compiuto e aperto al caos della vita. L’ho visto qualche giorno fa, quando i miei genitori, allontanandosi da noi figli per raggiungere la fermata dell’autobus, si sono presi per mano. Dopo 52 anni di matrimonio – gli acciacchi dell’età li costringono a rifare il letto stando in ginocchio, come una preghiera — la loro fedeltà è la cosa più trasgressiva che io conosca.

Nella chat familiare, mentre tutti usano l’emoticon tradizionale del cuore, mio padre — essendo noi figli sparsi per il globo — usa il cuore «wireless», un cuore con vibrazioni che ne indicano battito e connessione a distanza. Il cuore è un organo cavo di fibre muscolari involontarie: per questo è da sempre metafora amorosa. Le fibre, che si contraggono senza il nostro consenso, dicono che siamo fatti, che lo vogliamo o no, per amare; e il suo essere cavo conferma che l’amore è ricevere tutto per poi tutto dare. L’infarto delle relazioni è lo scompenso tra ricevere e dare, tra dono e bisogno. Il cuore «wireless» non è statico ma stabile, non è immobile ma in continuo moto d’entrata e uscita, bisogno e dono.

Il letto da rifare è riscoprire che l’amore si impara e si insegna, non s’improvvisa, altrimenti il narcinismo avvelena le relazioni. Non possiamo rinunciare all’educazione sentimentale dei ragazzi, ne va della loro felicità, molto più di quanto dipenda dalla carriera. L’amore non è il doping dell’ego, ma la vittoria sull’ego. Perché non cominciare raccontando ai figli la propria storia d’amore? Se loro sono qui è perché due hanno trovato il coraggio di promettersi: insieme saremo più forti che soli, insieme proveremo a vincere la solitudine e il tempo.


Corriere della Sera, lunedì 18 giugno 2018 

lunedì 11 giugno 2018

SAVERIO SGROI "Educare con il cuore: la differenza tra emozioni, sentimenti e passioni spiegate ai ragazzi (e anche un pò agli adulti)


Iniziamo con oggi alcune riflessioni sul tema "affettività e sessualità" che ci accompagneranno, settimanalmente,  per tutto questo periodo estivo.

Partiamo con un bell'intervento di Saverio Sgroi, educatore palermitano che si occupa molto di questi temi al punto da aver sviluppato un suo percorso formativo ("una storia unica") che tiene regolarmente nelle scuole
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"Quando incontro i vostri figli spiego loro la differenza tra emozioni, sentimenti e passioni. Come potranno infatti gestire la dimensione affettiva se non sanno dare un nome a ciò che provano o se confondono tra loro queste tre manifestazioni dell’affettività? Ecco, penso che sia necessario che anche un genitore sappia spiegare ai figli questa differenza tanto importante”.
Dicevo così, tempo fa in una città del nord Italia, durante un incontro sull’educazione affettiva dei preadolescenti, rivolgendomi ai loro genitori. Avevo appena terminato di pronunciare queste parole e stavo per cambiare discorso quando, dal fondo della sala, una mamma ha alzato timidamente la mano e mi ha chiesto, tra le risa divertite e al contempo interessate di tutti gli altri: “Scusi, potrebbe spiegare anche a noi che differenza c’è tra emozioni, sentimenti e passioni?”

Effettivamente, in un mondo nel quale la dimensione affettiva ha spesso un peso sproporzionato rispetto alle altre, non è strano che ad essere confusi e disorientati siamo anche noi adulti, che respiriamo lo stesso clima culturale nel quale crescono i nostri ragazzi. Non si tratta soltanto di conoscere le differenze tra emozioni, sentimenti e passioni ma soprattutto di essere consapevoli della loro influenza sulla personalità dei nostri figli, sulla loro crescita equilibrata e la loro capacità di vivere relazioni serene e positive. Il nostro compito, non dimentichiamolo, è quello fornire loro un orizzonte di senso all’interno del quale essi imparino a dare un nome a ciò che provano e soprattutto ad entrare in contatto con il proprio mondo affettivo. Ma come potremo riuscirci se neanche noi conosciamo bene i modi in cui si esprime la dimensione affettiva di una persona?

E allora proviamo a fare chiarezza, cominciando dalle emozioni. I genitori di un figlio adolescente dovrebbero sapere innanzitutto che il cervello di un ragazzo funziona in maniera molto diversa da quello degli adulti, perché la parte cognitiva si sviluppa più tardi rispetto a quella che elabora le emozioni, che in adolescenza è in piena e caotica attività. Ecco perché adolescente agisce molto spesso d’impulso senza chiedersi a quali conseguenze porta una determinata azione. È come se mancasse quel filtro mentale che, nel cervello di un adulto, permette di riflettere bene prima di agire. Se poi pensiamo che le emozioni sono brevi, improvvise e intense e che, per queste caratteristiche, riescono spesso a offuscare e annebbiare la dimensione razionale, ci verrà più facile comprendere l’enorme influenza che esse hanno sull’agire degli adolescenti e forse ci aiuterà a non rispondere impulsivamente di fronte ai loro comportamenti spesso irrazionali. Non succede anche a noi di avere delle difficoltà quando siamo presi da emozioni come l’ansia, la vergogna, la commozione, la paura o l’euforia improvvisa? Ecco, pensiamo che negli adolescenti questa difficoltà è “strutturalmente” maggiore.

Ma l’educazione del cuore non riguarda solo le emozioni. Accanto ad esse ci sono i sentimenti, che a differenza delle prime, si possono educare più facilmente. I sentimenti sono meno intensi e più duraturi delle emozioni. Essi si sviluppano nel tempo, sono più facili da gestire e possono essere coltivati e sviluppati se sono positivi (come la gioia, l’affetto, la simpatia, la stima) , oppure contrastati se si tratta di sentimenti negativi (come la malinconia, la tristezza, la gelosia, l’invidia). I sentimenti hanno il potere di condizionare il nostro modo di vedere la realtà, in positivo o in negativo. Ma soprattutto, proprio perché possono essere condivisi più facilmente delle emozioni, ci permettono di entrare in relazione con gli altri.

Poi ci sono le passioni, tanto importanti quanto faticose e difficili da coltivare. Quando chiedo ai ragazzi se oggi sia più facile vivere di emozioni, sentimenti o passioni, la risposta è sempre la stessa: è molto più facile vivere di emozioni, non devi far nulla, esse ti arrivano addosso e se sono piacevoli ne devi solo approfittare e goderne. Ma – continuo a chiedere loro – qual è il prezzo da pagare se si vive soltanto di emozioni? Perché la nostra epoca è molto emotiva e poco passionale? Forse la risposta a questa domanda sta nella radice greca (pathos) della parola “passione”, che è la stessa di “patire”, un verbo che oggi fa paura a tanti giovani e adulti, troppo abituati alla vita comoda. Eppure una vita senza passioni è una vita insipida, senza sapore, apatica. Una vita piatta. Una vita che, nei casi più estremi, porta a convincersi che non vale la pena di essere vissuta. Le passioni sono il motore della vita, sono quella forza che, se è positiva, è capace di smuovere in noi risorse ed energie inimmaginabili. Per questo è importante che l’educazione del cuore passi necessariamente dall’aiutare i ragazzi a sviluppare passioni belle: sport, hobby, interessi, ma anche vivere realtà come l’amore, l’amicizia, la relazione, lo studio, il lavoro, come delle vere e proprie passioni.

“Credo che tu sia stata la prima persona a spiegarmi la differenza tra emozioni, sentimenti e passioni e perchè sono necessarie ma non possono fare a meno della ragione”. Così mi disse qualche tempo fa una ragazza di un liceo palermitano. Il cuore non può fare a meno della ragione, anzi, con questa deve imparare a dialogare e trovare il giusto equilibrio, perché una persona troppo affettiva sarà costantemente in balia dei propri stati d’animo, mentre una troppo razionale farà fatica ad entrare in relazione con gli altri.

Favorire il dialogo interiore tra questa dimensione affettiva e quella cognitiva, fatta di valori, principi morali, desideri, ideali, è uno dei compiti educativi più importanti per i genitori. Trascorrere più tempo con i figli, parlare con loro e soprattutto ascoltarli permetterà di aiutarli a riconoscere e interpretare meglio le proprie dinamiche affettive e a dare un nome alle emozioni ed ai sentimenti che provano. Comprendere meglio i cambiamenti dell’adolescenza che riguardano soprattutto la sfera affettiva, aiuterà i genitori ad avere più pazienza nei confronti dei continui sbalzi di umore che caratterizzano questo periodo della vita. Accettare gli errori, le cadute, i fallimenti dei figli in questa età così difficile li aiuterà a fondare la vita un po’ di più su ciò che rimane – e l’amore incondizionato dei genitori per loro è una di queste realtà – e un po’ meno su ciò che è mutevole e cangiante, come spesso sono gli affetti e i sentimenti.

Ma c’è un’ultima, importante, considerazione da fare: educare il cuore dei nostri figli ha un incredibile effetto benefico sulla nostra sfera affettiva. “I miei genitori è come se non avessero mai avuto sedici anni. Non mi capiscono. Sono vecchi”. A volte è proprio così, siamo vecchi, come mi disse tempo fa una ragazza parlando dei suoi. Siamo vecchi e non è questione di età anagrafica. Siamo vecchi perché forse abbiamo perso la giovinezza del cuore.

L’educazione, nella misura in cui decidiamo di rimetterci in gioco per il bene dei nostri figli, è il migliore antidoto alla vecchiaia: ci avevate mai pensato?

giovedì 7 giugno 2018

Aiutare i figli nei compiti: giusto o sbagliato? L'esperto dice "meglio spronarli a fare da soli"


Quale genitore non si rende disponibile ad aiutare i propri figli a fare i compiti? Soprattutto quando c’è l’incubo delle prove Invalsi. Che si tratti di terza elementare o scuola media, mamma e papà si fanno in quattro per dare assistenza ai ragazzi che studiano. E, infatti, madri e padri sono sfiniti e si sfogano nei gruppi Whats Aapp lamentandosi tra loro. Ma è una scelta giusta? Sembrerebbe proprio di no. Anzi, le ultime ricerche condotte presso le Università della Finlandia orientale e di Jyväskylä dicono che aiutare troppo i figli nuoce al loro sviluppo. Al contrario, renderli autonomi - anche a costo di qualche errore - li fa diventare più tenaci.

Questione di fiducia
Nell'ambito della ricerca sono stati presi in considerazione i bimbi che frequentano la primaria dal secondo al quarto anno. Più le mamme davano ai figli opportunità per lavorare da soli per i compiti a casa, più il bambino diventava tenace per raggiungere il risultato. "Una possibile spiegazione è legata al fatto che quando la madre dà al bambino l'opportunità di fare i compiti autonomamente, la mamma invia anche un messaggio a dimostrazione che crede nelle sue capacità", spiega Jaana Viljaranta, docente dell'Università della Finlandia orientale.

Genitori spazzaneve
Al contrario, invece, un'assistenza concreta per i compiti da fare casa (specialmente se non è richiesta dal bambino) può inviare il messaggio opposto, cioè che la madre non crede nella capacità del figlio di fare i compiti. “Il modello – conferma Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva presso il Dipartimento di Scienze Bio-mediche dell’Università degli Studi di Milano-  è quello del genitore spazzaneve che invece di stare al fianco del figlio gli si mette davanti. Insomma, guidato dall’ansia di sostenere la crescita dei figli quasi si sostituisce a loro. Invece, l’ingresso a scuola dei bambini dovrebbe vedere l’adulto come un allenatore che lo conduce lungo il percorso e non come colui che ha la sola priorità di raggiungere l’obiettivo”.


Autonomia e valore degli errori
Quali conseguenze ha sui bambini quest’atteggiamento da mamma o papà chioccia? “Succede che anziché abituarsi a gestire i compiti in autonomia e a conquistare man mano i loro spazi – prosegue l’esperto - aumentano tantissimo le funzioni di delega”. Insomma, è come se i figli si aspettassero che il genitore gli mettesse a disposizione le proprie competenze. L’altra conseguenza riguarda l’ansia da prestazione: “I genitori di oggi – prosegue Pellai che è anche autore, insieme a Barbara Tamborini, del libro ‘Il metodo famiglia felice. Come allenare i figli alla vita’ (Edito da DeA De Agostini) – fanno un monitoraggio costante dei compiti perché deve essere tutto perfetto e senza sbavature mentre dovrebbero stare due passi indietro e soprattutto tollerare l’imperfezione e l’errore che sono tipici dell’età evolutiva e che permettono al bambino di crescere”.

L'ansia da prestazione dei propri figli
Questa eccessiva presenza del genitore come guardiano scolastico comunica ai figli la mancanza di fiducia nei loro confronti e nella loro capacità di farcela da soli. Che a sua volta genera una dipendenza costante ma anche il timore di sbagliare: “I bambini spesso temono molto di più la verifica da parte dei genitori piuttosto che quella degli insegnanti – spiega Pellai. Questo genera negli adolescenti un’epidemia di ansia da prestazione spaventosa”.

L'aiuto: solo su richiesta e nel modo giusto
Insomma, i genitori devono farsi un po’ da parte. Ma come si fa a tornare indietro se fino ad oggi siamo stati ‘genitori spazzaneve’? “Riprogrammando tutto insieme agli insegnanti per capire da loro di cosa ha bisogno il bambino e come è meglio comportarsi perché in questi casi il miglior consulente è l’insegnante” suggerisce Pellai. Insomma, i genitori non devono più entrare nella vita scolastica del figlio e devono smettere di stargli con il fiato sul collo.

Come tenerli inchiodati alla sedia
Il fatto è che i nostri ragazzi hanno tutti una gran fretta di finire i compiti per correre a giocare con la Playstation o tuffarsi nella rete con i vari dispositivi elettronici. Insomma, l’unica ansia che hanno è quella di finire presto per fare altro. Ma non è certo sostituendosi a loro che gli si insegna la responsabilità. Anzi. “Se siamo troppo presenti – fa notare lo psicoterapeuta – non li aiutiamo ad allenare le loro capacità di apprendimento e di concentrazione”. Piuttosto meglio fare degli interventi che servono a disciplinare il tempo che dedicano allo studio in modo che non abbiano distrazioni: “Per esempio, il genitore stabilisce che debba fare due sessioni di studio da 20 minuti ciascuna. Il suo ruolo, allora, deve essere solo quello di regolare il tempo, cioè deve comportarsi come l’allenatore che resta a bordo pista”. Guai, però, a correggergli i compiti: bisogna lasciarli così come li ha svolti, anche se ci sono errori. Lo studio dell’orale? “Va bene farsi ripetere storia e geografia, ma senza commentare in modo che il bambino impari ad ascoltarsi da solo”.

Cosa fare se chiedono aiuto
Ma come comportarsi se sono i figli a chiedere il nostro aiuto perché, per esempio, non hanno capito qualcosa? Dobbiamo negargli l’aiuto? “Verifichiamo cosa sta chiedendo – avverte Pellai. Se si tratta di qualcosa che non ha capito, allora lo aiutiamo spiegandogli l’argomento ma lasciando che faccia da solo il compito assegnato. Se, invece, la richiesta è proprio quella di fare i compiti al suo posto perché non si sente motivato, allora non bisogna aiutarlo ma spronarlo a fare da solo”.

Articolo estratto da Repubblica 21 maggio 2018 qui originale
Ascolta Alberto pellai su Radio24 del 25 maggio 2018 qui

lunedì 4 giugno 2018

La storia di Valter Brugiolo, il nostro "Pres" (da Testimonianze Musicali)

Francesca Bernardi ha partecipato alla 18ma edizione dello "Zecchino d'Oro" (1976) con la canzone "La Teresina". Poi ha fatto parte del Piccolo Coro dell'Antoniano diretto da Mariele Ventre, fino al 1984. Dal 2013 torna all'Antoniano come "mamma" di due coristi del Piccolo Coro "Mariele Ventre" diretto da Sabrina Simoni. Nel frattempo prende forma anche il coro dei "Vecchioni di Mariele", di cui fa parte come corista e come "ufficio stampa e organizzatrice", supportato dall'Antoniano e dalla Fondazione Mariele Ventre. Nasce anche il desiderio di "unire il passato col presente, raccogliendo storie, ricordi, notizie, per una valorizzazione e condivisione reciproca" dello Zecchino D'Oro che trova il suo spazio nel sito "Testimonianze Musicali". E' proprio dal sito Testimonianze Musicali che abbiamo estratto la presentazione del nostro presidente Valter Brugiolo




La storia di Valter Brugiolo
Ciao amici, sono Valter Brugiolo ho cantato all’età di quasi 6 anni al 9° Zecchino d’Oro nel 1967. Potevo non scrivere una riflessione su ciò quest’anno che festeggio (in senso artistico) le nozze d’oro con Popoff?
Sì sono io che 50 anni fa con un caschetto biondo, il viso imbronciato e vestito da cosacco ho cantato e vinto la nona edizione dello Zecchino d’Oro. Da quel momento Popoff mi ha marchiato piacevolente come un tatuaggio per tutta la vita.
Sono approdato all’Antoniano di Bologna in modo strano: nel 1966 un’amica di famiglia sentendomi cantare come chierichetto nella chiesa del mio paese natio, San Venanzio di Galliera in provincia di Bologna, chiese ai miei genitori se poteva portarmi alle selezioni dello Zecchino d’Oro. I miei le risposero che siccome avevano un mulino da portare avanti tempo non ne avevano ma se questa amica ci teneva poteva farlo. A qualche giorno dalle selezioni mi ammalai di morbillo e tutto saltò. Quell’anno lo Zecchino d’Oro fu vinto dalla canzone I Fratelli del Far West che a me piaceva moltissimo perché giocavo spesso a fare il cow boy.
L’anno successivo questa amica di famiglia tornò alla carica e dopo l’avvallo dei miei genitori approdai alle selezioni dello Zecchino d’Oro che si tenevano nel cinema teatro dell’Antoniano di Bologna. Per l’occasione avevo preparato due brani: I Fratelli del Far West (ovviamente per i motivi sopra menzionzati) e Caccia al tesoro.
Quello che è seguito io non lo so ma si vede che la giuria ha pensato che forse potevo essere l’interprete più adatto per cantare una canzone arrivata in extremis dal titolo Popoff e così fu.
Ho rischiato di non cantare allo Zecchino d’Oro perché non volevo imparare la canzone e Padre Berardo disse a mia madre: “Se non vuole imparare la canzone lo cambiamo immediatamente!”
Ma prima la pazienza di Mariele e poi quella di mia mamma e dei miei fratelli più grandi ovviarono a questa possibilità.
Poi come andò a finire tutti lo sapete. Per me fu come esplorare un mondo fantastico con nuovi amici con cui giocare e poi microfoni, luci, telecamere, orchestre, sale di incisione. C’era persino un mago (Zurlì) e un bambinone che non voleva mai studiare: Richetto. L’unica cosa che non avevo capito è perché avesse vinto la mia canzone quando la più bella era E ciunfete nel pozzo.
La cosa più importante però fu quella di aver conosciuto tante persone dell’Antoniano ed in particolare modo Mariele, Padre Berardo Rossi e la Pia Pasquali, così importanti per il seguito della mia vita e della mia famiglia di allora e di oggi.
Aver vinto lo Zecchino d’Oro ed essere entrato in milioni di case d’Italia tramite la televisione in bianco e nero produsse un periodo di forte popolarità per me e di riflesso per la mia famiglia. Nel giro di tre o quattro anni, feci serate in giro per l’Italia, i famosi Caroselli e anche cinque film dei cosiddetti “musicarelli” con importanti cantanti, attori e presentatori.
Una cosa curiosa sui Caroselli è questa: quando era piccolo c’erano due alimenti che mi facevano schif… la banana e i formaggini. Chiaramente i caroselli che interpretai furono quelli per i formaggini Milkana Oro. Ciò non bastasse dopo una settimana arrivò a casa tramite posta uno scatolone con un centinaio di confezioni dei famosi formaggini di allora!! La domanda che in continuazione mi ripetevo era: “Perché non mi hanno fatto fare i caroselli della Nutella???”
Dopo queste attività i miei genitori decisero che quella vita non era adatta ad un bambino di 10 anni e che se volevo fare l’attore o il cantante lo avrei deciso io da grande. Per me solo scuola, gioco e mulino. Sicuramente da parte dei miei genitori una scelta controcorrente perché rinunciavano ad entrate economiche cospicue conoscendo bene il sudore e la fatica per gestire un mulino. Oggi posso dire che sono stati due grandi genitori che per il bene del proprio figlio hanno rinunciato a del facile superfluo. Mi hanno insegnato che ci sono cose più importanti del denaro.
Così la vita di Popoff si è dipanata tra casa, scuola, campo sportivo e mulino finché mi sono sposato con Alessandra e laureato in economia e commercio.
Oggi dopo cinque figli e 27 anni come responsabile dei sistemi informativi ed energetici di una grande cooperativa di costruzioni di Bologna, dirigo una scuola elementare paterna con più di 80 bambini fondata con mia moglie e altre due coppie di genitori ed operante dal 2011. La scuola l’abbiamo intitolata ad una grande donna, insegnante, educatrice e formatrice di bambini: Mariele Ventre.
Le cose da raccontare sarebbero tantissime per es. sull’Antoniano, i frati, il personale e tutte le persone coinvolte per lo Zecchino d’Oro o per le trasmissioni realizzate negli studi televisivi. Dell’importanza che queste persone e quel luogo hanno avuto come punto di riferimento quando ho frequentato le scuole superiori a Bologna e anche dopo. Di esperienze bellissime come il pellegrinaggio con il Piccolo Coro in Terra Santa o ad Assisi.
Delle vacanze estive passate con mia mamma a Montorso vicino a Pavullo (Mo) con Padre Berardo Rossi e i suoi famigliari, Mariele e le tante persone importanti che li venivano a trovare mangiando tigelle, pasta fritta o la minestra di fagioli di mia mamma.
Oggi tra varie attività faccio parte anche della Fondazione Mariele Ventre partecipando alle varie attività che la fondazione organizza in ricordo della famosa direttice del Piccolo Coro, facendo a volte il presentatore, il cantante o il testimonial.
Durante questi anni Popoff mi ha fatto partecipare a tante trasmissioni televisive e spettacoli musicali. Certo che se dopo cinquant’anni si parla ancora di Popoff forse vuol dire che quel cosacco mi ha reso partecipe di un piccolo segno nel tempo. Capita ancora che qualcuno incontrandomi o conoscendomi mi domandi: “Scusi, ma lei non è quello che da piccolo ha cantato Popoff?”