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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

sabato 16 dicembre 2017

La grammatica della coerenza, per non andare mai controcuore

Pubblichiamo oggi un interessante spunto di riflessione sulla coerenza come elemento importante nell'educazione dei figli. L'articolo è tratto da portalebambini.it dove è possibile leggerlo interamente.




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Nella società dell’apparire, delle fanfare sul web, dell’esultanza per un paio di like in più o per la gente che parla di noi, nel bene o nel male, ci stiamo perdendo la grammatica della coerenza. Quelle poche, semplici indicazioni che vogliono soltanto portarci a “sentire” di nuovo, sentire forte. Non travolti dalla ridondanza, non oppressi dall’esteriorità.
Riscoprire il senso più vero delle parole significa dar loro il giusto peso. Vuol dire pronunciarle dopo averle ponderate, viverle senza soccombere, lasciarle andare senza che siano intrise di pregiudizio o di falsità.
Non mostriamoci diversi da quello che siamo, la grammatica della coerenza serve proprio a questo. A testimoniare genuinità, cura, rispetto e, soprattutto, verità. Non fingiamoci altro, non cediamo alle frasi di comodo, le più semplici.

AI BAMBINI BISOGNA DIRE LA VERITÀ

Perché non partiamo da noi stessi, imparando a cancellare i filtri che ci caliamo addosso per apparire diversi, per non essere davvero noi? Perché smettiamo di raccontarci bugie?
Non possiamo formare gli uomini e le donne del domani, i piccoli di oggi, se non gli permettiamo di vedere la nostra anima. Basta allora fingere di stare sempre bene, di essere sempre perfetti. Impariamo ad essere coerenti, a dichiarare le nostre imperfezioni.
Che significa tutto questo? Vuol dire, semplicemente, che parliamo troppo e sentiamo troppo poco. No, badate bene, non abbiamo scritto “ascoltiamo”, ma “sentiamo”. Il che significa che pronunciamo parole, ma spesso la loro vera essenza si perde.
Non possiamo insegnare ai bambini a seguirci a testa alta, come l’ochetta Martina che trotterellava dietro a Konrad Lorenz, se non curiamo la nostra coscienza, ardua operazione che richiede il coraggio di andare contro corrente e di non aver paura di fronte alla salita.
In chiusura, riprediamo l’ultimo paragrafo del prezioso contributo di Paolo Mai:
  • “Curare le virtu’ è un processo lungo, ascoltare il cuore costa fatica e allora nell’attesa cominciamo col dare il giusto significato ai detti e alle parole.
  • “Studium” significa ,si, applicarsi ma anche meravigliarsi e appassionarsi.
  • “Scholè” significa ozio, tempo libero, magari da dedicare a ciò che ci appassiona.
  • “Ripetere”non significa ridire ciò che ha detto un altro ma domandare piu’ volte.
  • “Aula”deriva dal greco aulè che significa luogo libero, arioso”.
Tutto questo va riscoperto, coerenza significa anche restare ancorati al valore più vero delle cose. Quello che nessun social, chat o foto filtrata potranno rendere virale o travisare.

mercoledì 13 dicembre 2017

Allestire stanze: un bel modo per celebrare il periodo dell'Attesa

Articolo estratto da ilmagiscopio in preparazione al Santo Natale.

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Il desiderio di autonomia di un figlio adolescente ci mette alle strette sull’urgenza di allestire la sua camera “#tuttapersé”. Così, da una parte senza troppa consapevolezza sulla baraonda da scatenare in casa, dall’altra con il suo fiato sul collo ad ogni occasione utile, bisogna iniziare a progettare. E quando ci si mette a progettare, ci si rende conto di un sacco di aspetti che non si erano affatto presi in considerazione.


Punto uno: per dare spazio bisogna liberare spazio.

Sembra banale… ma non lo è. Prima di tutto devo combattere la mia inerzia nel cominciare ad aprire i cassetti che conservano un numero di cose inimmaginabili: so che appena ne aprirò uno, mi si spalancherà un mondo che dovrò setacciare e, ahimé, gestire. Alla prova dei fatti, tutto sommato, risulta interessante rivangare un passato depositato, ufficialmente archiviato, pure impolverato e ritrovare oggetti di cui non si ricordava nemmeno l’esistenza, cianfrusaglie inutili che, davvero, ci si chiede perché siano state salvate e poi incontrare, riprendere e rielaborare ricordi legati ai fogli scritti, alle fotografie… ed iniziare a percepire la necessità di fare pulizia… assumere un sano distacco dalle cose, sceglierne soltanto alcune, riciclarne altre, dare un ordine ad ogni cosa (o, come direbbe mio marito, con la famigerata regola delle “5 S”… un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto).


Punto due: per mettere ordine fuori, è necessario fare ordine dentro.

«Eccola che parte con la sua mistica spicciola!», mi direte. Forse sì, avete ragione voi… ma è ciò che sto sperimentando con gli Esercizi Ignaziani nella vita quotidiana. Se prima era solo una teoria similintellettualspirituale, ora è una consapevolezza frutto di un’esperienza. Quando sentiamo il desiderio di mettere ordine dentro di noi e proviamo a coltivarlo, un po’ tutto ciò che ci sta intorno prende un diverso ordine, si muove, si mette in moto per riassestarsi, per occupare gli spazi liberati, per offrirci nuove libertà interiori, per darci nuovi sguardi su ciò che ci circonda. Un po’ come allestire stanze nuove nella nostra casa, per offrire il giusto spazio di autonomia a ciascun componente della famiglia.


Punto tre: una volta fatto spazio e ordine mi sento più capace di accogliere nella gratuità.

Questo punto, naturale conseguenza degli altri due, è lo spirito con cui sento di mettermi in attesa dell’Amore, che verrà a visitarci tutti, senza distinzione, nella notte di Natale. Perché per accogliere l’Amore che ci ama da sempre, l’Amore che viene a cercarci e continua a cercarci senza tregua – pur lasciandoci liberi di allontanarci, ma sempre pronto a precederci nell’abbraccio della sua tenerezza – ci viene chiesto davvero di allestire la nostra stanza più bella, di curarla, di riscaldarla e di metterci dentro tutti noi stessi: il bene che siamo e le mancanze d’amore che quotidianamente collezioniamo. A tutto il resto ci penserà l’Amore che, senza alcun nostro merito, verrà a portarci la Luce e tornerà a renderci capaci di allargare le nostre stanze per chi ancora non è riuscito a farlo.

Così, nell’allestire stanze, nell’abbassare colli, nel riempire valli, camminiamo e attendiamo con gioia. 
Ed, insieme, iniziamo l’Avvento.

domenica 10 dicembre 2017

L'educatore è chiamato a farsi piccolo per aiutare la persona a diventare grande

In questa seconda Domenica di Avvento ci piace riportare qui (guarda il video) il bel commento al Vangelo del Prof. Andrea Porcarelli del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell'Università di Padova che, citando le parole di Don Gino Corallo (educatore e pedagogista salesiano), ci parla della figura di S. Giovanni Battista ed il suo farsi metafora pedagogica: "oportet me minui ut illum crescat" ... l'educatore è chiamato a farsi piccolo, a rendersi inutile, proprio man mano che sta aiutando la persona educabile a diventare grande, autonomo

GUARDA IL VIDEO


venerdì 8 dicembre 2017

VITTORINO ANDREOLI: Educare significa far riscoprire la vita

Due riflessioni che prendono le mosse dal pensiero di Vittorino Andreoli, noto psichiatra e scrittore italiano sul senso dell’educazione e pubblicate dal sito portalebambini.it

Perché, al di là dei metodi (che sono tutti, ugualmente limitanti, pur avendo svariati pregi) rimane il dilemma di capire cosa significhi educare.

EDUCAZIONE COME SCOPERTA DELLA VITA

"Educare non è una decorazione, o insegnare le buone maniere. Il primo requisito per rendere possibile l’educazione è far scoprire la vita e la sua bellezza"
Vittorino Andreoli
Questo passaggio è il più difficile: la vita e la bellezza, infatti, sono straordinariamente complesse. L’educazione moderna, spesso, semplifica fino all’eccesso. Prendiamo un esempio: quando parliamo di sviluppo sensoriale, pur toccando un tema nodale all’interno dello sviluppo psicologico, non possiamo dimenticare che ci sono infinite altre sfere della persona e della sua crescita bisognose di attenzione. Il rischio dell’educazione moderna è quello di risultare sbilanciata, a favore di alcuni elementi quali sensorialità, socialità, logica. Sono elementi essenziali, è vero, ma lo sono anche tutti gli altri.
Il Prof. Andreoli si sofferma spesso sul tema dell’unicità dell’uomo, che va considerato nel suo insieme, in termini olistici: non possiamo ridurlo ad una sequenza di sintomi (per quanto attiene alla psichiatria), comportamenti o linee di sviluppo.
Dunque, nello sforzo di educare, dovremmo innanzitutto trasmettere il nostro amore per la vita, la nostra ricerca per la bellezza. Inevitabilmente chi farà propri questi elementi li modificherà; alle volte saranno stravolti rispetto a come noi li intendevamo. Eppure, se saremo riusciti a trasmettere la passione, il nostro sforzo sarà produttivo.




EDUCAZIONE COME RELAZIONE

"L’educazione è una relazione tra due persone di generazioni diverse. Un buon educatore deve essere fragile. La fragilità è la forza della relazione"
Vittorino Andreoli
Questo passaggio è particolarmente significativo per comprendere come l’educazione non si possa limitare ad una staffetta di valori. Educare significa accettare il rischio di mescolare i propri valori con quelli dell’altro, di contaminarsi. Non possiamo in alcun modo educare se rinunciamo a comprendere il mondo dell’altro; questo è specialmente valido quando si parla di adolescenza, oppure di relazioni difficili.
Prima di Andreoli, un altro grande (tra i tanti) aveva trattato il tema della relazione nei termini della fragilità: Antoine de Saint-Exupéry; ne “Il Piccolo Principe”, infatti, il dialogo con la Volpe, mette proprio in evidenza come le relazioni siano qualcosa che ha a che fare con la fragilità della nostra natura, capaci anche di fare soffrire; le relazioni si costruiscono giorno dopo giorno, un mattoncino sopra l’altro. E ogni tanto, inevitabilmente, qualcuno di essi cede.
Proprio la lettura (e rilettura) di questo testo può aiutarci a capire meglio l’importanza della fragilità, intesa non come debolezza ma come consapevolezza.



NOTA: le citazioni contenute in questo passo sono “riadattate” mettendo insieme alcuni stralci dell’intervista che Andreoli ha rilasciato a febbraio 2017 al SIR (Servizio Informazione Religiosa) e che potete leggere integralmente qui.

martedì 5 dicembre 2017

I genitori «spazzaneve», spianano la strada ai figli ma li danneggiano (dal "Corriere della Sera del 30 nov 2017)

Riportatiamo qui un interessante articolo pubblicato da www.corriere.it/scuola (qui la versione originale) e l'allarme di una preside contro la tendenza a «spianare la strada ai figli».


di Claudia Voltattorni
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Gli inglesi li chiamano «genitori spazzaneve». Perché «ripuliscono ogni cosa davanti ai loro figli in modo che nulla possa andare loro storto e possa minacciare la loro autostima». Succede a Londra, al collegio femminile di Saint Paul dove la direttrice Clarissa Farr, racconta al Times, ogni giorno si imbatte in madri e padri vittime di «ansia frenetica che fa loro rifiutare l’idea che i propri pargoli possano arrivare secondi». Il che si traduce in «bambini iperprotetti e incapaci di affrontare un fallimento».
Succede anche in Italia. Dove schiere di genitori arrivano da insegnanti e presidi e «giustificano, minacciano, mentono perfino pur di proteggere gli amati figlioletti da una punizione». Succede all’asilo e si va avanti fino alle superiori. Perché «la scuola è il nemico». Riflette Daniela Scocciolini, per oltre quarant’anni insegnante e poi preside del liceo Pasteur di Roma: «La tendenza a prevenire ed evitare qualsiasi difficoltà ai figli è diventata patologica: padri e madri sono del tutto impreparati ad affrontare gli insuccessi dei figli, non ci si vogliono trovare perché non sanno come uscirne». È come se dicessero: «Non create problemi a mio figlio perché li create a me». E allora, «la soluzione più facile è dire sempre sì, spianare la strada: sono “genitori non genitori” che rinunciano a priori a educare i propri figli cercando di semplificare loro tutto». E la colpa di ogni insuccesso, dice Innocenzo Pessina, ex preside del liceo Berchet di Milano, 43 anni tra scuole di periferia e centro,«è data sempre alla scuola, così si arriva ai ricorsi al Tar per bocciature e brutti voti». Bisogna «insegnare ai ragazzi a confrontarsi con la realtà, aiutarli nelle strade in salita, faticose e impegnative, ma non sostituirsi a loro». I genitori, conferma anche Micaela Ricciardi, preside del liceo Giulio Cesare di Roma, sono «apprensivi e ai figli trasmettono una grande fragilità». L’unica strada è parlarci: «Dico loro di tenere la distanza: siate dei punti di riferimento, ma lasciateli sbagliare, solo così cresceranno responsabilizzati».
Ma c’è anche «l’ansia frenetica» di far primeggiare i figli ad ogni costo, la «ricerca del successo» con l’idea che chi sbaglia sia un fallito: «Crea tanta infelicità tra i ragazzi» dice Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta che dal blog «Psiche Lei» su Io Donna osserva ogni giorno genitori-figli-scuola: «Questo dilagare degli adulti sui figli fa solo male: si trasmettono aspettative e stereotipi per indirizzarli dando un’idea di competitività anziché di realizzazione di sé». E magari alla fine nessuno è contento: «Forse anche per la crisi economica - dice Vegetti Finzi - i genitori sono più ansiosi per il futuro e si sostituiscono ai figli, come se dicessero: “Scelgo io per te” e preparano loro le strade da seguire». E allora? «Lasciateli liberi - conclude la professoressa -, ritiratevi progressivamente lasciando la vita di vostro figlio a lui, inclusi fallimenti ed errori».

mercoledì 29 novembre 2017

MATTEO BUSSOLA: "Quand’è che ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le vite dei nostri figli?"

"Quando abbiamo iniziato a mettere in discussione l’autorità dei docenti, a partire dai compiti assegnati a casa? Perché le chat di classe su WhatsApp, che dovrebbero essere luogo di confronto e partecipazione, diventano sempre più spesso pretesto per critiche aggressive? 

Ma soprattutto: quand’è che ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le vite dei nostri figli, che fare il loro bene significasse impedire a chiunque di metterli in crisi, dimenticando che la crisi è uno strumento di crescita indispensabile?”

Se lo chiede, intervistato da ilLibraio.it, (qui l'intervista completa: www.illibraio.it) Matteo Bussola, in libreria con "Sono puri i loro sogni - Lettera a noi genitori sulla scuola". 

Secondo l'autore "stiamo crescendo generazioni di bambini che sono sempre più dipendenti da noi. E le dipendenze sono sempre un problema”
Negli ultimi anni il mondo della scuola è stato messo a dura prova, non solo dai tanti cambiamenti avvenuti per le tante riforme e dalle richieste sempre più grandi di competenze tecnologiche, ma anche per il rapporto spesso teso e di sfiducia tra genitori e insegnanti.

Pur appartenendo alla categoria dei genitori a cui rivolge la sua lettera aperta, è anche figlio e genero di due insegnanti. Pensa che questa doppia dimensione abbia mosso il suo desiderio di scrivere questo libro?
“No, credo di no. Ma va detto che l’esperienza scolastica di mia madre mi è stata certamente utile, anche perché ha insegnato negli stessi anni in cui io sono stato studente io, offrendomi il suo punto di vista. Questo libro in realtà è nato da un articolo scritto per Robinson, l’inserto domenicale di Repubblica al quale collaboro, a sua volta il pezzo era stato innescato da un messaggio ricevuto su Facebook da un’amica maestra di scuola primaria, che mi ha raccontato amareggiata un episodio”.

Quale?
“Durante una lezione ha ripreso con fermezza un suo alunno per un episodio di bullismo, e per questo motivo ha subito pesanti conseguenze. La ragione è che il bambino è tornato a casa e ha raccontato ai genitori di essere stato picchiato dalla maestra. I genitori, senza voler ascoltare alcuna spiegazione, si sono rivolti al dirigente scolastico chiedendo pesanti sanzioni, il preside intimorito dalla furia genitoriale ha preso immediati provvedimenti. Nessuno ha messo in discussione la versione del bambino, nessuno ha creduto a quella dell’insegnante. Una settimana dopo l’alunno ha rivelato di essersi inventato tutto, nonostante questo i provvedimenti sono rimasti attivi, e la docente non ha ricevuto alcuna scusa dai genitori. Ora, una singola testimonianza non ha valore di campione statistico, ma va detto che quando mi è stata riportata non sono rimasto sorpreso, perché storie come questa sono sempre più frequenti, anche fra i casi di cronaca più recenti. Fa riflettere il fatto che, anche solo vent’anni fa, una cosa del genere non sarebbe mai successa, e di certo non sarebbe mai successa ai tempi miei o di mia madre: una volta rimproverato dall’insegnante, a casa il bambino si sarebbe sentito dire il resto dai genitori, e sarebbe finita lì”.

Dunque è partito da questo episodio reale.
“Partendo da questo parallelismo, e attorno a queste due polarità, ho cominciato a mettere a fuoco alcune riflessioni e osservazioni frutto dei miei dieci anni di esperienza scolastica come padre di tre figlie in età scolare e, soprattutto, una serie di domande, che in quanto genitore rivolgevo anche a me stesso – ecco perché Lettera a noi genitori“.

Quali domande?
“Quand’è che siamo diventati così? Quando abbiamo cominciato a pensare alla scuola come all’erogazione di un servizio, nel quale il cliente deve avere sempre ragione? Quando abbiamo iniziato a mettere in discussione l’autorità dei docenti, a partire dai compiti assegnati a casa? Perché le chat di classe su WhatsApp, che dovrebbero essere luogo di confronto e partecipazione, diventano sempre più spesso pretesto per critiche aggressive? Ma soprattutto: quand’è che ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le vite dei nostri figli, che fare il loro bene significasse impedire a chiunque di metterli in crisi, dimenticando che la crisi è uno strumento di crescita indispensabile?”.

Quali sono i rischi di questa sfiducia sempre più accesa nei confronti della scuola da parte dei genitori?
“Il rischio più grande è che alla scuola, più che educazione e istruzione, chiediamo esclusive garanzie di sicurezza: i bambini non devono sentirsi a disagio, non devono avere problemi con i compagni, non possono ricevere punizioni nemmeno quando le meritano, non devono essere bocciati e sui brutti voti, in caso, interverremo noi genitori protestando con i docenti. Naturalmente, ci sono anche molti genitori rispettosi e assennati, ma la tendenza che rilevo è in continuo e preoccupante aumento. In psicologia vengono chiamati ‘genitori spazzaneve’, ovvero quei padri e quelle madri che si ostinano a rimuovere dalla strada dei figli qualunque tipo di ostacolo. È forse anche per questo che i bambini di oggi presentano sempre maggiori difficoltà a gestire qualunque forma di stress. La vecchia scuola, pur con tutti i suoi limiti e i suoi metodi a volte anche discutibili, otteneva comunque l’importante risultato di aiutarci a sviluppare la nostra autonomia. Oggi, invece, stiamo crescendo generazioni di bambini che sono sempre più dipendenti da noi. E le dipendenze sono sempre un problema”.

Osservando quel che accade a scuola nelle classi delle sue tre figlie, pensa che la “buona scuola” stia aiutando a superare questi anni di profonde incomprensioni e diffidenza nei confronti dell’istituzione scolastica?
“Non saprei. Credo che non ci sia ‘buona scuola’ che tenga se non ci decideremo, prima di tutto, ad assumerci le nostre responsabilità. In questo senso ci tengo a dire che l’intento di Sono puri i loro sogni non è e non è mai stato quello di attribuire le ‘colpe’ di questo sistema di cose solo a noi genitori, santificando gli insegnanti. Anche gli insegnanti hanno, indubbiamente, la loro parte di responsabilità. Ma penso che noi genitori dobbiamo partire occupandoci della nostra, di parte. Credo che per disinnescare ogni conflitto sia sempre meglio partire da sé stessi, interrogarsi su quello che noi possiamo fare per primi, invece che continuare a puntare il dito verso l’altro. Ogni relazione è composta da due elementi, perciò mutando il comportamento di uno, anche di poco, tutta la relazione evolve. Credo che questo semplice cambio di atteggiamento possa essere più produttivo di tutto il resto”.

Nel suo libro non punta mai il dito, né contro i genitori né contro la scuola, che si è modificata un po’ come richiedeva la società. Ma è anche vero, come lei sostiene, che i genitori hanno lasciato fare. Se si potesse realizzare un miglioramento con uno schiocco di dita, da genitore come immagina la scuola ideale per gli studenti di oggi?
“Basterebbe ricordare, e applicare, una parola magica: rispetto. Rispetto per i nostri figli che hanno il diritto di vivere le loro vite e fare i loro errori senza le nostre paure a far loro ombra, rispetto per il ruolo degli insegnanti che hanno il diritto di poter svolgere il loro compito senza ingerenze. Rispettando il loro ruolo, tra l’altro, rafforzeremmo anche il nostro, perché ci dimostreremmo così utili alleati e non avversari, ricevendo il rispetto che a nostra volta chiediamo agli insegnanti. Soprattutto: dovremmo ricordare che il nostro compito di genitori, anziché tenere i figli costantemente al riparo, dovrebbe essere quello di mostrare che la vita non è sempre una linea retta che collega volontà e obiettivi, ma può essere una linea curva che congiunge impegno e capacità di adattamento, anche alle difficoltà. Che gli incidenti fanno parte del tragitto. Perché, quando le cose accadono, se ne fregano se tu le volevi o no, loro accadono e basta, e sono proprio le deviazioni o gli imprevisti, i fallimenti perfino, a servirci di più. Ci spingono a impegnarci, sono la benzina che ci fa muovere e ci sono utili per capire che io non sono l’obiettivo che mi pongo, né il desiderio che lo ha generato, ma sono soprattutto il percorso che faccio per arrivarci e la maniera in cui affronto quel che incontro lungo la strada. Randy Pausch diceva che «l’esperienza è quella cosa che ti rimane quando le cose non sono andate come volevi». Io la penso come lui, e credo che imparare a costruire la propria esperienza, senza l’ossessiva paura dell’errore che trasmettiamo ai bambini, sia la sola cosa di cui i bambini hanno davvero bisogno”.

Si sta discutendo molto sulla possibilità di tenere aperte le scuole anche d’estate, tema che tocca anche nel suo libro. Come si pone rispetto a questa esigenza manifestata da tanti genitori?
“Il tema è assai delicato. Io mi limito a dire, da genitore, che una riforma seria della scuola che comprenda un minimo di organizzazione dei tre mesi estivi e una ridistribuzione di attività scolastiche, ludiche, compiti, programmi e orari, gestiti sia ben chiaro dagli stessi insegnanti, sia ormai opportuna. Non si tratta di ridurre la scuola a un parcheggio o i docenti al ruolo di sorveglianti per i figli durante i mesi estivi, come qualcuno ha detto, ma di rendersi conto che abbiamo a che fare con un’organizzazione scolastica che funziona in maniera anacronistica rispetto alle esigenze di tutti, comprese quelle degli stessi insegnanti che lamentano croniche carenze di tempo per completare i programmi ministeriali. Perciò ben vengano gli aumenti di stipendio ai professori e ogni incentivo possibile, ma una scuola strutturata nella maniera attuale, che chiede giustamente ai genitori durante l’anno partecipazione e sforzi per seguire i figli nei compiti e in tutte le attività, e poi li lascia per tre mesi al pascolo, non è più sostenibile”.Il luogo pubblico, scuola compresa, è qualcosa di cui dovremmo prenderci cura tutti, come suggerisce con alcuni esempi lampanti nel libro. 

Da dove cominciare?
“Cambiando paradigma, dunque mentalità. Il problema è che nel nostro Paese il concetto di ‘pubblico’, anziché rimandare a ‘cosa di tutti’, dunque da rispettare, troppe volte rimanda a ‘cosa di nessuno’. Siamo abituati a questa visione qui. Il luogo pubblico non è una cosa della quale prendersi cura insieme, da tenere pulita, verificando che funzioni, ma è solo un posto in cui buttare le cartacce a terra ‘perché tanto pago le tasse’ o in cui portare a cagare il cane di nascosto ‘perché tanto lo fanno tutti’, o nel quale abbandonare l’auto con le quattro frecce sul posteggio dei disabili per andare al bar a lamentarsi delle buche sotto casa, del vicino che piazza sempre la macchina davanti al nostro passo carrabile, o del fatto che ho appena pestato la cacca del cane di un altro, quell’incivile. L’atteggiamento cambia, radicalmente, ogni volta che il ‘pubblico’ incontra un nostro interesse privato. Allora il pubblico diventa, d’un tratto, nostro. Ecco, per cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della scuola, basterebbe riflettere sul fatto che la scuola ha a che fare con ciò che di più “nostro” esiste in assoluto: i figli. Per questo l’interesse di tutti dovrebbe essere quello di contribuire a farla funzionare meglio, perché la scuola accoglie il loro presente, ma è il generatore del loro futuro”.“Educare”, dal latino educere, significa “trarre fuori, allevare”. 

Oggi pensa che i genitori, per fingersi amici dei figli, demandino troppo spesso e interamente questo compito agli insegnanti?
“No. Penso che il problema sia che noi genitori siamo spesso confusi. Vogliamo delegare educazione e istruzione ma al contempo non sappiamo se lo vogliamo davvero. Vogliamo vedere, vigilare, farci sentire. La nostra costante presenza, che troppo spesso sfocia in invadenza o, peggio, ingombranza, è il risultato di una genitorialità che interpreta troppo spesso l’amore come un mettersi davanti, nel tentativo di proteggere ciò che abbiamo di più prezioso. Il problema è che così facendo stiamo impedendo ai nostri figli di diventare adulti”.

Quali parole rivolgerebbe a un bambino che pone la fatidica domanda: perché devo andare a scuola?
“Le rispondo come ho risposto a mia figlia Ginevra, che mi ha rivolto la stessa domanda qualche anno fa: ‘Perché andare a scuola è il lavoro dei bambini’”.

E, per finire, cosa consiglia ai genitori che, come lei, si trovano a vivere la scuola mediata dai racconti dei propri figli e dalle chat dei genitori su Whatsapp?
“Di ricominciare a parlarsi”.

venerdì 24 novembre 2017

ALBERTO PELLAI: educare alle emozioni con lo Zecchino d’Oro, dietro una canzone per bambini c’è molto di più


Psicoterapeuta dell'età evolutiva. Alberto Pellai lavora come ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università degli Studi di Milano, dove è docente di educazione sanitaria e prevenzione. Ha pubblicato molti libri per bambini, genitori e insegnanti. In questi giorni ha pubblicato un bell'articolo su familyhealth.it parlando dello Zecchino D'Oro. Non potevano non pubblicarlo sul nostro blog


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E’ un programma televisivo molto amato. Di certo è anche la rassegna di canzoni per bambini più famosa della nazione. Ma lo Zecchino d’oro è molto, molto di più. Tanto per cominciare rappresenta un piccolo grande pezzo di storia della nostra televisione e anche della cultura dell’infanzia. Quest’anno compie 60 anni eppure conserva un’originalità e una freschezza che lo rendono sempre giovane.


La prima puntata dell’edizione 2017 è andata in onda sabato 19 novembre e ha inaugurato una serie di 4 puntate a cadenza settimanale più uno speciale in prima serata – il giorno 8 dicembre – che verrà condotta da Carlo Conti, che quest’anno è anche il Direttore Artistico della manifestazione.
Per me lo Zecchino d’Oro è un filo rosso che lega il bambino che sono stato con l’adulto che oggi mi sforzo di essere. Un adulto attento ai bisogni in età evolutiva e attento a sostenere il valore educativo di tutto ciò che sostiene la crescita.
Quando ero bambino lo Zecchino d’oro rappresentava per me un appuntamento imperdibile. Ogni anno le canzoni dello Zecchino mi aprivano una porta che dava accesso a mondi nuovi e fantastici. Le canzoni dello Zecchino dei miei tempi erano scanzonate e divertenti, leggere come un palloncino che sale verso l’alto, colorate con tutti i colori dell’arcobaleno. Poi, più avanti hanno cominciato ad essere anche molto altro. Per esempio, nel 1976 lo Zecchino ha cominciato ad introdurre in ogni edizione 6 canzoni provenienti da nazioni straniere, che venivano cantate da un bambino proveniente dallo stato di cui il brano era rappresentante. Alcuni passaggi di queste canzoni erano cantate in lingua originale e così negli anni i bambini italiani si sono trovati immersi in un mondo di suoni, di lingue, di colori, di narrazioni con dentro i profumi, le culture e le storie di tutte le nazioni del mondo.
Fu una vera rivoluzione: i bambini si trovarono – grazie allo Zecchino – il mondo in casa. Un mondo, che a quei tempi non era globale come oggi, un mondo dove per inviare un messaggio da una nazione all’altra bisognava ancora fare affidamento sul servizio postale e non su una mail che in tempo reale connetteva due punti lontani migliaia di chilometri con un semplice click. E anche di questa rivoluzione digitale, lo Zecchino d’Oro è stato al tempo stesso testimone e protagonista. Perché negli ultimi 20 anni, computer e mondo web hanno fatto comparsa nei versi dei suoi brani e hanno divertito i bambini, inviando al tempo stesso messaggi educativi e preventivi di alto spessore educativo.
Vi propongo, a questo proposito, un breve percorso musicale con tre brani che toccano un’area educativa fondamentale per i nostri figli e studenti: quella dell’educazione emotiva. Un modo nuovo e originale per fare educazione e prevenzione con i più piccoli, pescando nel repertorio dello Zecchino, cui appartengono ben 752 canzoni, alcune delle quali sono vere e proprie gemme di un patrimonio musicale dalle indubbie valenze formative.
L’educazione emotiva
Riconoscere i propri stati emotivi, saper dare parole a ciò che sentiamo e imparare a gestirlo ha un valore fondamentale nel percorso di crescita. Non sempre è facile trovare strumenti e materiali adatti per affrontare il tema dell’educazione emotiva con bambini in età prescolare e scolare. Parlare di emozioni, implica infatti selezionare parole dall’alto contenuto evocativo e al tempo stesso proporre al bambino situazioni e immagini che rispecchiano il suo stato d’animo, il suo modo di sentire, il suo mondo interiore.
Nel repertorio dello Zecchino d’Oro ci sono canzoni che hanno saputo assolvere questi obiettivi educativi in modo egregio, unendo un notevole valore artistico musicale a testi dall’alto potere evocativo e capaci di condensare in una strofa o in un ritornello principi di educazione emotiva che ogni genitore ed ogni educatore vuole condividere con i propri figli o con i proprio studenti.
Ecco un breve percorso basato su tre grandi Hit del repertorio dello Zecchino. Per ogni canzone trovate una breve descrizione e poi il link al video del brano del cartone animato sviluppato sulla traccia musicale. Un’esperienza educativa che vi divertirà e aiuterà i vostri bambini ad apprendere alcune competenze emotive di indubbio valore.
Le tre canzoni che trovate in questo percorso sono tra l’altro presente anche nel musical “Il Magico Zecchino d’Oro”, realizzato da Fondazione Aida, in collaborazione con l’Antoniano di Bologna e il Centro Servizi Culturali Santa Chiara, la cui colonna sonora contiene alcune delle più celebri canzoni della manifestazione e che nei prossimi mesi andrà in tourneè in molte città italiane: 3 dicembre Varese; 8-9-10 dicembre Roma; 16 dicembre Sulmona; 17 dicembre Bari; 23 dicembre Bergamo; 24 dicembre Genova; 26 dicembre Nichelino (TO); 4 gennaio 2018 Padova; 5 gennaio 2018 Verona

PRENDI UN’EMOZIONE: Una canzone per scoprire che le emozioni hanno un suono, un colore e che si scrivono sul e nel nostro corpo, facendo battere il cuore e riempiendo di magia i momenti più intensi della nostra vita
Ascolta qui: PRENDI UN'EMOZIONE

CHI HA PAURA DEL BUIO: Non c’è un bambino che prima o poi non abbia avuto paura del buio. E allora ecco una canzone per entrare in quella paura, riderci un po’ su e venirne fuori più tranquilli e sereni.

Ascolta qui : CHI HA PAURA DEL BUIO

QUEL BULLETTO DEL CARCIOFO: questa canzone ha vinto l’ultima edizione dello Zecchino. Insegna a considerare la diversità come risorsa e aiuta i bambini ad avere rispetto di qualsiasi persona si trovino accanto, indipendentemente dalla sua “forma”, “colore” e “provenienza geografica”, proprio come impara “quel bullo del carciofo” che invece fa il prepotente e prende in giro le verdure dell’orto colpevoli, secondo lui, di essere tutti diversi tra loro e portatori di caratteristiche che in realtà non sono un segno di diversità, ma un elemento di distinzione, unicità, individualità

martedì 21 novembre 2017

In TV torna lo "Zecchino D'Oro" mentre DiPiuTv ritrova Popoff

Nei giorni scorsi il settimanale DIPIUTV  ha pubblicato una lunga intervista a Valter Brugiolo, conosciuto ai più come Popoff. 

Per chi conosce la nostra scuola, sa bene che "Popoff" è da sempre il presidente della nostra cooperativa sociale. 

Con piacere pubblichiamo qui l'intervista per chi non avesse potuto leggerla.


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Popoff , il piccolo cosacco ora ha cinquantasei anni e dirige una scuola

Intervista di Gianni Ruggi

Per i sessanta anni dello Zecchino d'Oro, no, non poteva mancare il mio Popoff. Mi hanno anche invitato a cantarlo. Certo, non ho più il caschetto biondo e il costume da piccolo cosacco della steppa non lo indosso più da tempo... ho cinquantasei anni suonati, moglie e quattro figli, ma l'emozione di cantare: "Nella steppa sconfinata a 40 sotto zero se ne infischiano del gelo i cosacchi dello zar..." non me la toglie nessuno».

Chi parla è Valter Brugiolo, uno dei protagonisti più famosi e mai dimenticati dello Zecchino d'Oro. Aveva solo sei anni quando, nel 1967, conquistò lo Zecchino d'Oro e l'Italia intera cantando le imprese del cosacco cicciottello che rimaneva in coda ai compagni diretti al fiume Don. "Ma Popoff sbuffa, sbuffa e dopo un po' gli si affonda lo stivale nella neve e resta lì…” cantava tutto imbronciato e con le braccia conserte, diventando l'idolo di una generazione cresciuta con la TV dei ragazzi. Bambini che riuscivano a sognare anche in bianco e nero, grazie al Mago Zurlì e al caschetto del grintoso Popoff. E così per tutti Valter Brugiolo divenne semplicemente "Popoff'.

Siamo alla vigilia della nuova edizione dello Zecchino d 'Oro, condotta da Francesca Fialdini, e in onda dall'Antoniano di Bologna con quattro puntate pomeridiane su Raiuno a partire da sabato 18 novembre, e una serata speciale 1'8 dicembre con Carlo Conti per festeggiare i sessanta anni della manifestazione, e noi abbiamo rintracciato quel piccolo cosacco, ormai uomo, per farci raccontare come è andata la sua vita dopo quel trionfo epocale.

“Be', sì, fu incredibile. Addirittura per i giornalisti di allora il mio paese era diventato San Venanzio di Popoff», ci rivela Valter, che oggi fa il dirigente scolastico proprio a San Venanzio di Galliera, in provincia di Bologna. «E pensare che arrivai lì per caso. Fu un'amica di mia madre, che mi aveva sentito cantare come chierichetto, a insistere per vedermi sul palco dell'Antoniano. Ma nessuno nella nostra famiglia di mugnai avrebbe mai immaginato che sarei diventato famoso. Mia madre era quasi spaventata, perché mi volevano ovunque. Iniziai ad andare in giro a fare serate, portandomi la base musicale su un disco in vinile. Arrivavo vestito da cosacco e cantavo una sola canzone: Popoff; ma bastava per entusiasmare tutti. Risultavo simpatico, dicevano che avevo la faccia del monello, paffutella e fotogenica».

Valter era talmente fotogenico che la sua carriera, dopo Lo Zecchino d'Oro, continuò in TV grazie a Carosello.

«Ero una sorta di "bambino prodigio". Pensa che mi fecero fare anche la pubblicità dei formaggini Milkana Oro. E poi arrivarono tantissime offerte dal cinema. Mia madre era restia: per lei dovevo solo andare a scuola. Per questo quando, nel 1968, partecipai a “Zum Zum  - la canzone che mi passa per la testa”, un musicarello con Little Tony diretto da Bruno e Sergio Corbucci, i miei genitori nel contratto ottennero che durante le riprese fossi seguito da una maestra privata. Quello stesso anno, di musicarelli ne vennero altri: “Lisa dagli occhi blu” e “Il suo nome è Donna Rosa” con Albano e Romina Power, e poi Pippo Baudo, Nino Taranto... Be', sì, di gente ne ho conosciuta».

«Lo dice quasi con un filo di rimpianto», gli faccio notare.

«No, non è rimpianto, ma ho magnifici ricordi: mi divertivo tantissimo a girare per i set di Cinecittà. Per me, bambino, era come avere un enorme parco giochi a disposizione. Ma il piccolo cosacco, per conquistare il suo posto nel mondo, doveva studiare. Quella vita, malgrado guadagnassi tanto da consentire ai miei genitori di ristrutturare la nostra casa, era comunque poco adatta al mio futuro. Così, a dieci anni, tornai alla normalità di un bambino di provincia, tutto casa e scuola. La gente per strada continuava a riconoscermi come "Popoff', ma io, anche se ero rimasto in contatto con il Coro dell'Antoniano, avevo altri obiettivi rispetto a cantare o a fare spettacolo».

«Che obiettivi aveva?».

«Be', innanzitutto dare una mano ai miei. Sa, il mulino di famiglia non era un'impresa facile da mandare avanti. Le braccia non sono mai abbastanza... Così, appena ho potuto, ho iniziato a dividere il mio tempo tra lo studio e i sacchi di grano e farina da caricare e scaricare. E lo studio non era facile, insomma erano anni caldi quelli. Erano gli anni della contestazione studentesca, delle Brigate Rosse, gli anni di piombo. E io studiavo a Bologna: era facile perdersi. Ma per mia fortuna c'era l'Antoniano »

«Scusi, in che senso "c'era l'Antoniano"?» chiedo.

«Sì, era un po' il mio rifugio. Vede, per me padre Berardo Rossi, uno dei fondatori del coro, era diventato più di un amico: una figura di riferimento, il mio padre spirituale. E il suo insegnamento mi è sempre servito nella vita. Devo anche a lui se alla fine mi sono laureato in Economia e commercio e poi ho iniziato a lavorare per una cooperativa edilizia. Devo a lui e a Mariele Ventre, la storica direttrice del coro, se il piccolo cosacco è cresciuto nel rispetto dei valori cattolici, a iniziare da quello della famiglia».

«Valter, parliamo allora della sua bella famiglia...», dico.

«Ho conosciuto mia moglie Alessandra nel 1980, ci siamo sposati nel 1988, ma il Signore purtroppo non ci ha dato figli, anche se entrambi sognavamo una famiglia numerosa. Così, anche per dare concretezza alla nostra esperienza di fede, volevamo fare qualcosa per i bambini poco fortunati e abbiamo intrapreso la strada dell'affido e dell'adozione. Oggi abbiamo quattro figli adottivi, ma non ci siamo dati un limite; la nostra è una famiglia aperta, e questo ci riempie la vita. Siamo davvero legati nella buona e nella cattiva sorte. Pensi solo che io vivo grazie a lei».

«In che senso?», chiedo. 

«Nel 2011 ho scoperto di avere la stessa malattia che aveva afflitto mio padre e mio fratello, la policisti renale. In pratica la funzionalità dei due reni si riduce poco a poco finché l'unico rimedio è il trapianto: si può vivere anche con un solo rene, ma sano. Mia moglie, in un estremo gesto d'amore, ha voluto donarmi un suo rene. Può capire ora quanto il nostro amore sia cementato. E a tenerlo unito ogni giorno ci pensa anche il lavoro insieme...».
 «Perché, che cosa fate?»

«Gestiamo una scuola intitolata a Mariele Ventre. È una scuola elementare privata, che abbiamo fondato con altre due coppie di genitori, proprio durante il periodo buio legato al trapianto. Nella nostra scuola, definita "scuola parentale" e prevista dalla legge, i genitori si prendono la responsabilità dell'istruzione dei propri figli in prima persona, scegliendo strutture e docenti che privilegino l'aspetto educativo nel pieno rispetto dei valori cattolici. Da noi, per esempio, c'è la maestra unica. Seguiamo il programma ministeriale ma alla fine di ogni anno i nostri bambini fanno un esame alla scuola pubblica per andare avanti. Ora abbiamo ottantacinque bambini che seguono le nostre lezioni». 

«E i suoi alunni sanno chi era Popoff?», chiedo. 

«Certo, non poteva mancare un'aula dedicata al piccolo cosacco e a ricreazione ci sono le canzoni dello Zecchino d'Oro. La mia canzone è la più gettonata: in fondo il piccolo Popoff, mentre gli altri cedevano sfiniti, alla fine ce l'ha fatta: "Ma Popoff così tondo che farà? Rotolando nella neve fino al fiume arriverà"».

E queste strofe, mai dimenticate, le canterà in TV per i sessant’anni dello Zecchino d'Oro.