Continuiamo con la pubblicazione
dei resoconti degli incontri organizzati dalla scuola paritaria "La
Zolla" sui temi ragazzi, scuola, educazione. Oggi ripubblichiamo l'articolo
del resoconto dell'incontro con Franco Nembini, fondatore della scuola. L'articolo originale è pubblicato sul sito sussidiario.net a questo
link: qui l'articolo completo
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Il segreto per educare una
generazione di "orfani"
di Roberto Persico
Dopo D'Avenia, Nembrini.
Cambiano i toni, non la sostanza. Reduce dalle registrazioni di Nel mezzo del cammin
per TV2000, Franco Nembrini trova una sera per rispondere a un'altra raffica di
domande nient'affatto banali, che i genitori de La Zolla hanno posto per
aiutarsi a capire che cosa vuol dire educare oggi, e come scuola e famiglia si
possono sostenere in questo, che è il compito della vita.
Pronti, via, si va subito al cuore della
questione: «qual è la sfida educativa sulla quale scuola e famiglia sono
innanzitutto chiamate?». «Il segreto dell'educazione — Nembrini spiazza subito
— è non avere il problema di educare». Nel senso che l'educazione — chiarisce —
non è un'azione specifica, un'attività che uno compie nel momento in cui si
pone lo scopo di trasmettere contenuti o valori ai figli o agli alunni.
L'educazione avviene sempre, che ne siamo consapevoli o meno. «I figli fanno
sempre il loro mestiere, e lo fanno bene: i figli ci guardano. Ci guardano
sempre; e vedono che concezione, che sentimento abbiamo della vita. Su questo
non si può barare. Lessi tanto tempo fa uno studio scientifico che affermava
come un bimbo che cresce nel ventre di una mamma contenta della vita — una
mamma che canta, che è lieta di quel che vive — ha molte più probabilità di
sviluppare un sentimento positivo nei confronti della vita di uno che si forma
nel seno di una donna scontenta, irosa, risentita. Non è che quelle donne
abbiano il problema di educare i figli: è che, semplicemente, i figli
letteralmente respirano il sentimento che della vita hanno gli adulti che
stanno loro intorno. Allora la domanda vera non è "Come si fa a educare?",
ma "Chi sono io? Che sentimento ho io della vita?". Quando ero
ragazzo — quarto di dieci figli, famiglia contadina, sempre pieni di debiti —
io guardavo mio padre — bidello, malato a lungo della sclerosi multipla che lo
ha portato alla tomba — e mi dicevo: "Che grande uomo mio padre! Io da
grande voglio essere come lui". Lui non ha mai avuto il problema di
educarci, di farci tanti discorsi (con dieci figli, pensate!); ma io lo vedevo
vivere e respiravo una concezione della vita che mi affascinava. Questa, se
devo sintetizzare, è la sfida che abbiamo davanti: che vita viviamo noi? Perché
i nostri figli dovrebbero seguire quel chiediamo loro? Che cosa testimoniamo
loro di bello, di buono, di grande? Perché l'educazione, ridotta all'osso, è
sempre una testimonianza: guardar la vita con un entusiasmo tale che i figli si
incuriosiscano: da dove viene il tuo entusiasmo?».
Ma come si fa a vivere così? Lo chiede
drammaticamente un'altra domanda: «Dalle scuole medie fino alle superiori sono
cresciuta sentendomi dire sempre la solita frase: "potresti dare di più,
si sei intelligente ma non ti applichi, se studiassi di più avresti risultati
migliori...", e più me la dicevano più mi sentivo schiacciata, perché io
ero quella cosa lì, quella decisione lì di esserci fino ad un certo punto. Ora
sono mamma e l'anno scorso al ritiro delle pagelle di mia figlia che allora era
in prima media, mi trovai a fissare quei voti e a dire ai prof quelle stesse
frasi che mi avevano mortificata anni prima. La loro reazione mi spiazzò: mi fulminarono
con lo sguardo e mi dissero che quella frase non aveva senso, e che loro erano
contenti di mia figlia e che la stavano aspettando. Loro stavano aspettando che
lei tirasse fuori tutto quello che aveva dentro e che per questo ci voleva
tempo e pazienza. E loro erano certi, credevano in lei senza aspettarsi che
questa esplosione avvenisse subito. Anche ora continuano a guardare mia figlia
così, continuano a chiederle tutto ma attendendo pazientemente. Io non
riesco!!! quando la vedo perdere tempo, quando la vedo accontentarsi di voti
bassi perché anche questa volta si è parata il sedere con poco, quando la vedo
muoversi così vorrei chiuderla in camera e legarla alla sedia! Ma capisco che
non serve. Perché lei è di più di quello che penso e vedo io. Lo capisco ma mi
sembra una presa in giro...».
«I giovani sono sempre uguali. Come ha
ricordato Benedetto XVI in un memorabile intervento a un convegno
sull'educazione della diocesi di Roma nel 2008, i figli vengono al mondo fatti
come si deve, perché il loro cuore l'ha fatto Dio, a quelli di oggi come a
quelli delle generazioni precedenti: tutti hanno lo stesso desiderio di bene,
di bello, di vero. Qual è la differenza che vedo montare drammaticamente oggi?
I ragazzi di oggi soffrono, soffrono tantissimo, perché crescono con la
sensazione di non andare mai bene. Non vanno bene ai genitori, agli insegnanti,
agli allenatori, ai preti… non vanno mai bene a nessuno. È una generazione di
orfani: orfani di speranza, orfani di felicità, di bene. Che cosa vuol dire "voler
bene"? Ce lo insegna la storia cristiana: "Dio è morto per noi,
mentre eravamo ancora peccatori". Non "io ti vorrei bene, se tu fossi
un po' più ubbidiente, ordinato, studioso…", no: "io ti voglio bene
adesso, così come sei". L'educazione comincia sempre solo così: come un
atto di misericordia: educare è l'affermazione del valore dell'altro, a
prescindere.
Tutti noi siamo diventati grandi perché
qualcuno ci ha guardato e ci ha voluto bene prima che ce lo meritassimo; perché
il suo sguardo diceva: "Io mi compiaccio non di quello che sei, ma perché
ci sei". Questo è il segreto dell'educazione. Ma per avere questo
sentimento nei confronti dei figli bisogna averlo per sé: o lo vivi o non lo
vivi, non te lo puoi inventare. Perché un figlio ci sfida, ci mette alla prova?
Perché ha assolutamente bisogno di sapere se suo padre e sua madre hanno
ragioni sufficienti per essere felici. L'equivoco più grande è mettere la
nostra felicità nei figli, nel successo dei figli: così li soffochiamo,
mettiamo sulle loro spalle un peso che non possono portare, li schiaccia. I
nostri figli hanno diritto a un padre e a una madre che hanno una ragione di
felicità più grande di loro, dei loro sì e dei loro no, dei loro successi e dei
loro insuccessi. Per questo ci mettono alla prova: perché hanno bisogno di
sapere che noi reggiamo».
Si va verso la conclusione, emerge l'ultima questione: in tutto
questo, come aiutarsi fra scuola e famiglia? Ancora una volta, Nembrini
spiazza: «C'è un modo di concepire l'alleanza educativa che è terribile:
identificare il valore del figlio con il voto. È terribile, e universalmente
diffuso: stimiamo i nostri figli unicamente in funzione dei risultati
scolastici. E a quelli sacrifichiamo tutto il resto. Se li misuriamo col metro
del successo scolastico — e poi, crescendo, del successo economico, per cui
vanno bene solo le scuole che portano a professioni di successo — li abbiamo
già ammazzati. Perché abbiamo soffocato il desiderio di bene che li fa uomini.
Mentre è il contrario, come in tutte le cose della vita: solo la felicità
permette di vivere bene. Solo se aiutiamo i nostri figli a essere contenti, se
li sosteniamo con uno sguardo buono, se vedono che noi abbiamo una speranza
grande, grande abbastanza da reggere anche la fatica dello studio, allora
possono anche mettersi a studiare. Allora tutta la ragion d'essere di una
scuola come La Zolla, e di tante scuole come questa, è esattamente sostenersi
nel guardare gli alunni e i figli come abbiamo detto stasera. Allora il
titolare della proposta educativa, che è il gestore col suo corpo docente, deve
condurre sistematicamente un dibattito serratissimo con le famiglie, per
aiutarsi e correggersi nell'individuare e perseguire tutte le conseguenze,
culturali, pedagogiche, eccetera, di quel che abbiamo detto. Il valore di
scuole così è esattamente questo: che usano gli strumenti che hanno — le
materie, i voti (perché sono strumenti, non scopo) — per coltivare la libertà
degli allievi e per vivere l'educazione come misericordia. E perché scuole così
vivano, perché i nostri figli possano frequentare scuole così, vale la pena
fare qualunque sacrificio, vale la pena spendere la vita». C'è da lavorare per
tutti.