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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

venerdì 3 febbraio 2017

La lucida analisi del prof. Galli della Loggia sulla crisi del sistema scolastico



Rilanciamo un estratto dall'interessante articolo del prof. Ernesto Gali della Loggia pubblicato su Corriere della Sera il 15 gennaio 2017

(qui puoi leggere l'articolo originale  e completo: QUI)


L’abbandono della scuola al tempo dell’abdicazione della politica
Dagli anni Ottanta i poteri dei ministri sono passati agli esperti, cancellando nei programmi ogni valenza formativa. E, per gli alunni, l’insegnamento ora è insignificante (di Ernesto Galli della Loggia)
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Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia. La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione. Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.
Radici classiche
Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione. È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.
Chi decideva gli ordini di studio
Tutto ciò, ripeto — dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 — è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.
Investimento collettivo
È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare». Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.
(…….)
Vacuo cosmopolitismo
A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale». Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla. Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» — che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito — si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.
Dimensione a a dimensione tecnico-operativa
È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo — si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito — di fare di essa la matrice del carattere e della personalità. La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer. Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo.

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