San Francesco d’Assisi, il
grande Santo della povertà, esaltato da Dante nell’XI canto del Paradiso, è stato spesso considerato l’inventore del “presepe” ed è per
questa ragione che spesso, nelle rappresentazioni
presepiali, fa la sua comparsa anche un frate rivestito del saio francescano,
con il sacco delle elemosine sulla spalla e, talora, con un bicchiere di vino
offertogli dalla generosità di un oste o di un avventore.
In
realtà, San Francesco non realizzò una rappresentazione del presepe a Greggio come l’intendiamo noi, cioè mediante figure, che
possono essere delle statue, di maggiore o minore grandezza, o anche delle vere
e proprie persone, come nei presepi cosiddetti “viventi”. Egli fece qualche
cosa di diverso: egli volle che il Sacrificio
della Messa, nella Notte di Natale, fosse celebrato, non, come
di consueto, in una chiesa, ma nell’ambiente stesso in cui Gesù era nato, cioè in una stalla.
Centro della celebrazione fu la
mangiatoia, appositamente preparata, con un bue e un asino come uniche “comparse”: non c’erano,
infatti, “figuranti” che impersonassero la Madonna e san Giuseppe. C’erano, sì,
i “pastori”, ma questi erano i veri pastori, abitanti delle zone vicine.
Neppure fu posto il “Bambino” nella mangiatoia, a mezzanotte, com’è nostra consuetudine:
nel “presepe” preparato da San Francesco, il Bambino apparve come segno della particolare predilezione divina per
il Santo e per la sua scelta in favore della povertà.
Questo
è quanto risulta dal racconto che
dell’avvenimento fa Tommaso da Celano, seguace
di San Francesco (entrò nell’ordine probabilmente a quindici anni) e suo primo biografo.
Di seguito la traduzione:
84. Si deve anche ricordare, e con reverente memoria
ritornarvi, ciò che, due anni prima della sua gloriosa morte, fece nel giorno
della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, presso il paese che si chiama
Greccio. In quel circondario vi era un uomo di nome Giovanni, che conduceva una
vita anche migliore della buona fama di cui godeva. Il beato Francesco aveva
per lui una particolare predilezione perché, pur essendo di stirpe molto nobile
ed onorata, aveva calpestato la nobiltà della carne e aveva perseguito la
nobiltà dello spirito. Il beato Francesco, dunque, come spesso era solito fare,
quasi quindici giorni prima di Natale, lo fece chiamare e gli disse:
– Se vuoi che celebriamo questo Natale a Greccio, va’, precedimi, e
prepara con cura ciò che ti dico. Voglio, infatti, celebrare il memoriale di
quel Bimbo che nacque a Betlemme e con gli occhi del corpo contemplare i disagi
della sua infanzia povera, come fu adagiato nella mangiatoia e come, tra il bue
e l’asino, se ne stette poggiato sul fieno.
All’udire queste parole, quell’uomo buono e fedele corse subito via e
nel luogo indicatogli preparò ciò che il Santo aveva detto.
85. Si avvicinò dunque il lieto giorno, venne il tempo dell’esultanza. Da
più luoghi furono fatti venire i frati, e gli uomini e donne di quel
circondario, ognuno secondo la possibilità, nell’esultanza dell’anima,
prepararono ceri e fiaccole ad illuminare la notte che, con lo splendore della
stella, illuminò tutti i giorni e gli anni. Venne, infine, anche il Santo di
Dio e, trovando tutto preparato, vide e ne gioì.
Si prepara la mangiatoia, vi si porta il fieno, vi si conducono il bue
e l’asino. In quel luogo si onora la semplicità, si esalta la povertà, si
raccomanda l’umiltà, e, da Greccio che era, il paese diventa quasi una nuova
Betlemme. S’illumina la notte come fosse giorno, piena di delizia per uomini e
bestie. Arriva gente, e, di fronte al nuovo rito, si rallegra di gioia finora
sconosciuta.
La selva rimanda le voci, e le rocce rispondono alle grida di giubilo.
Cantano i frati innalzando a Dio le dovute lodi, e l’intera notte risuona dei
canti di giubilo. Il Santo di Dio è in piedi davanti alla greppia, con intensi
sospiri, devotamente raccolto e circonfuso di meravigliosa allegrezza. Si
celebra la Messa solenne sulla mangiatoia, e il sacerdote ne riceve una consolazione
mai provata prima.
86. Il Santo di Dio indossa i paramenti da diacono, poiché era diacono, e
con voce squillante annunzia il Vangelo. E la sua voce, volta a volta veemente,
dolce, chiara, sonora, invita tutti a cercare il premio più alto. Poi tiene la
predica al popolo circostante e prorompe in parole dolci come il miele sulla
nascita del Re che si è fatto povero e sulla piccola città di Betlemme.
[…]
Si moltiplicano i doni di Dio e da un uomo virtuoso si scorge una
mirabile visione. Costui vedeva, infatti, nella mangiatoia giacere un bimbo
addormentato e il Santo di Dio gli si accostava, e voleva quasi risvegliare il
fanciullino dal sonno profondo. E non era sconveniente, questa visione, poiché
il Bambino Gesù era caduto nella dimenticanza nei cuori di molti e in questi
stessi cuori, per la Sua Grazia, Egli fu resuscitato per mezzo del suo servo
san Francesco e ne fu impresso l’indelebile ricordo. Si termina infine la
veglia solenne e ognuno se ne torna con gioia alla propria dimora”.
Dal testo appare
chiaramente che quella nella stalla di Greccio non fu una “rappresentazione” (neanche del tipo di quelli che, nel
Medioevo, erano chiamati “Misteri”), ma
fu celebrazione della liturgia: probabilmente anche l’espressione
“Cantano i frati innalzando a Dio le dovute lodi”, si riferisce al canto
dell’Ufficio Divino che precede la Messa. Quello che a Greccio è del tutto
nuovo è il luogo in cui la liturgia è celebrata: una povera stalla, mentre a
Roma, il Papa e i Cardinali celebrano lo stesso rito, commemorando lo stesso
evento, nello sfarzo e nella ricchezza. E il “dono di Dio”, la venuta del Bimbo
Divino nel luogo della celebrazione, è concesso alla stalla di Greccio e
non al superbo Laterano.
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