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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

lunedì 27 febbraio 2017

Come deve essere un “buon” educatore?

Un buon educatore deve essere fragile, avere la percezione dei propri limiti, deve sentire particolarmente il piacere di stare in contatto con le nuove generazioni, per insegnare e per imparare. La fragilità è la forza della relazione



“La cura e l’attesa” è il titolo del 15° Convegno nazionale di pastorale giovanile, organizzato dal Servizio CEI per la pastorale giovanile a Bologna dal 20 al 23 febbraio. Obiettivo della tre-giorni di lavori, cui hanno partecipato oltre 700 incaricati da oltre 150 diocesi italiane, è costruire il profilo e le competenze dei buoni educatori. “Come deve essere un ‘buon’ educatore?”: a questa domanda ha risposto lo psichiatra Vittorino Andreoli che ha aperto il convegno con una relazione dal tema “Quale adulto per una educazione possibile?”.

Qui l'intervista in originale (da lavoce.it)

Quali sono i requisiti per rendere possibile l’educazione?
“Il primo è far scoprire la vita e la sua bellezza. Educare non è una decorazione o insegnare le buone maniere. Vivere vuol dire sapere che cosa è la vita, il suo senso, che cosa significa, quindi, anche morire. Il concetto di educazione si lega al significato del vivere. C’è poi un altro punto su cui riflettere…”

Quale?
“Decidere chi è l’educatore. L’educatore è uno che deve continuamente essere educato. Un paradosso da risolvere. Non c’è più l’educatore professionista. L’educazione è una relazione tra due persone di generazioni diverse. Educare vuol dire continuamente educarsi, sentire che c’è interesse per l’altro, dedicarsi all’altro; in opposizione al dominio dell’egocentrismo di oggi. Questo tipo di relazione varia a seconda del ruolo. La famiglia ha un ruolo specifico: deve usare l’amore. L’amore vuol dire avere talmente tanto interesse per l’altro che non puoi fare nulla senza. Poi c’è la scuola. L’insegnante deve sentire interesse, sentirsi parte della crescita del ragazzo, e provare gratificazione nel vedere che sta imparando a vivere. Deve avere il gusto dei giovani del tempo presente e avere il gusto che i giovani possano – ecco il paradosso – insegnare. La definizione che di solito si dà oggi dell’adolescente è quella di ‘un problema costoso’. Invece è una risorsa per la mia vita”.

La Chiesa cosa deve essere in ambito educativo?
“La Chiesa ha una funzione fondamentale: aiutare a interpretare la vita. La visione che presenta la Chiesa deve avere due dimensioni. La prima è scoprire il Sacro. La sacralità è qualcosa che abbiamo tutti dentro perché si lega al mistero, alla morte, al dolore. La seconda è quella del Religioso, che è la risposta al bisogno del Sacro. Guardiamo a Gesù di Nazareth e al suo esempio. Il suo comportamento era coerente con il Padre e con la visione del Cielo. Papa Francesco parla di Chiesa in uscita, di prossimità, di intessere reti e relazioni, di costruire ponti. Il Pontefice è un buon imitatore di Gesù”.

Come i giovani, anche gli adulti sono in crisi, non in grado di educare, di insegnare a vivere…
“La crisi è un contenuto dell’educazione. Gli adulti sono da educare. Per educare, allora, bisogna essere fuori dalla crisi? Nemmeno per sogno. Non pretendiamo adulti senza crisi, ma adulti anche in crisi che sappiano, nonostante ciò, trasmettere princìpi fondamentali che sono quelli della vita su questa terra. Non si può pensare di avere oggi una generazione di adulti solida come quelle del passato. Un uomo che è in crisi sbaglia, ma anche l’errore può servire. È la concezione del peccato: un uomo che ha peccato non è da buttare via, perché il Signore lo va a cercare. La via di uscita è l’umanesimo della fragilità”.

Vale a dire?
“La fragilità è la caratteristica della condizione umana di avere desideri che non si realizzano, di porsi domande cui non si danno risposte. Non siamo deboli, ma fragili, e fragile vuol dire aver bisogno dell’altro. Si differenzia dal potente che invece ha bisogno dell’altro per sottometterlo. Il fragile ha bisogno dell’altro perché la sua fragilità, unita a quella dell’altro, dona forza per vivere. Ecco l’umanesimo della fragilità: guai al superbo che pensa di potere tutto! L’educazione deve inserirsi all’interno dell’umanesimo della fragilità. La fragilità capovolge la visione del mondo. La Chiesa insegni la vita secondo la visione di quel Gesù di Nazareth che è di grandissima attualità”.

Un buon educatore, quindi, deve essere fragile?
“Un buon educatore deve essere fragile, avere la percezione dei propri limiti, deve sentire particolarmente il piacere di stare in contatto con le nuove generazioni, per insegnare e per imparare. La fragilità è la forza della relazione".

a firma: Daniele Rocchi

sabato 18 febbraio 2017

THERESE' HARGOT: la nuova schiavitù della rivoluzione sessuale

Pubblichiamo un estratto dell'intervista (qui l'intervista completa) a Therese Hargot, giovane sessuologa belga (classe 1984) con una laurea in filosofia e un master in scienze sociali alla Sorbona. Sposata, con tre figli, Thérèse ama sfidare la vulgata corrente. È fermamente convinta che la rivoluzione sessuale abbia apportato una liberazione senza libertà sicché, in luogo di renderci più liberi, ci ha fatti transitare da una obbedienza all’altra. È quanto espone in "Una gioventù sessualmente liberata (o quasi)"  edito in Italia da Sonzogno. E' forte la sua critica al sesso tecnicizzato, igienizzato, ridotto alla combinazione meccanica dei corpi. Il paradosso, dice la sessuologa belga, è che la sessualità non è mai stata tanto “normata» come nel nostro tempo per via del combinato disposto tra il culto della performance (imposto dall’industria pornografica) e l’ansietà derivata da una morale igienista


.....Thérèse Hargot è fortemente critica anche della “morale del consenso», per la quale ogni atto sessuale va considerato un atto libero nella misura in cui è “voluto».
TH : "Secondo un diffuso senso comune, oggi il consenso individuale è il solo criterio che permette di distinguere il bene dal male. Je consens, donc je suis, dice Michela Marzano: acconsento, dunque sono. Questo nuovo “cogito» permissivo induce gli adulti ad abdicare alla loro funzione educativa e con la sua estensione indiscriminata mette in serio pericolo l’infanzia: “Coi nostri occhi di adulti, tendiamo talvolta a considerare in maniera tenera la liberazione sessuale dei più giovani, meravigliati dalla loro assenza di tabù. In realtà subiscono delle enormi pressioni, non sono affatto liberi. La morale del consenso in linea di principio è qualcosa di giustissimo: si tratta di dire che siamo liberi quando siamo d’accordo. Ma abbiamo esteso questo principio ai bambini domandando loro di comportarsi come degli adulti, capaci di dire sì o no.
Ora, i bambini non sono capaci di dire no.
Nella nostra società c’è la tendenza a dimenticare la nozione di maturità sessuale. È molto importante. Al di sotto di una certa età riteniamo che vi sia una immaturità affettiva che non rende capaci di dire “no». Non c’è consenso. Bisogna davvero proteggere l’infanzia».
Andando controcorrente, la giovane sessuologa arriva ad esaltare i metodi naturali, biasima il discorso femminista e la medicalizzazione del sesso indotta dalla pillola. Quest’ultima viene elevata a “emblema del femminismo, un emblema della causa delle donne». Ma della bontà di un simile feticcio, afferma tranchant, “c’è da dubitare, visti gli effetti sulla salute delle donne e sulla loro sessualità! Sono le donne che vanno a modificare il proprio corpo, e mai l’uomo. È una cosa completamente iniqua. È in questa prospettiva che mi interessano i metodi naturali, perché sono i soli a coinvolgere equamente l’uomo e la donna. Sono basati sulla conoscenza che le donne hanno del loro corpo, sulla fiducia che l’uomo deve avere nella donna, sul rispetto del ritmo e della realtà femminili. Lo trovo in effetti molto più femminista che non distribuire un medicinale a donne in perfetta salute! Facendo della contraccezione una faccenda unicamente femminile, abbiamo deresponsabilizzato l’uomo».
Non fa eccezione a questo quadro la pratica dell’utero in affitto, “perché sopprimere la madre sarebbe l’ultima tappa del dominio maschile», osserva la sessuologa-filosofa. Con la Gpa “un uomo può creare la vita senza una donna. Certo, ha ancora bisogno del “corpo femminile», ma non si tratta più di una donna, cioè di una persona umana che per principio non può essere utilizzata come un mezzo, quali che siano il fine e le modalità. Dopo il sesso con la prostituzione, le ovaie con la riproduzione artificiale, l’utero è l’ultimo bastione conquistato dalla volontà di disporre del corpo delle donne. La sottomissione delle donne a scopi commerciali o caritatevoli tocca il suo apogeo. Da madre diventa operaia, da donna diventa serva che risponde ai comandi e alle esigenze di coloro a cui appartiene il progetto di paternità».

sabato 11 febbraio 2017

Tecnologia digitale: consigli per l'uso. Il nuovo libro di Manfred Spitzer


«Siamo malati di cyber, ma Spitzer condanna gli eccessi d'uso della tecnologia, perchè, come in medicina, è la dose che fa il veleno...» 

Frankfurter Allgemeine 


Presentiamo un libro interessante che affronta un tema molto delicato: l'utilizzo della tecnologia in dosi utili. L'autore è Manfred Spitzer ed il libro è "Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale?" edito da Corbaccio (Milano 2016, pagine 432, Eur 19,99)


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In questo nuovo libro, Spitzer  continua lo sforzo di renderci coscienti dei rischi a cui andiamo incontro.
A fronte dei messaggi generalizzati sulle straordinarie possibilità e potenzialità degli strumenti su citati non esita a definire tali messaggi come risultati delle più potenti lobby internazionali dei produttori di tali strumenti (hardware e software) e a paragonare tali messaggi a quelli delle lobby dei produttori di sigarette che periodicamente pubblicavano risultati di ricerche per cui il fumo non era poi così dannoso per la salute.
Manfred Spitzer è nato nel 1958, è laureato in Medicina e Psichiatria, è stato
visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l'Apprendimento dell'Università di Ulm.
Egli riconosce che nella clinica dove lavora, la donna delle pulizie usa il computer per ordinare i detersivi, le infermiere per archiviare i documenti, i medici per qualunque cosa, e anche i dirigenti non possono permettersi il lusso di
non lavorare con il computer. In breve: il computer è ormai necessario quasi in qualunque occupazione.
Sarebbe dunque auspicabile che già a scuola si imparasse l'uso dei media digitali e si potesse ottenere una specie di patentino
ad hoc. Ma computer e internet non vengono visti solo come strumenti per compiere determinati lavori, bensì come strumenti di apprendimento grazie ai quali l'educazione dei bambini finalmente avverrebbe in maniera automatica dopo millenni di estenuanti predicozzi. Molti genitori insicuri comprano ai figli un computer solo per questo motivo. Vogliamo che i nostri figli abbiano più possibilità di noi. Per questo non vogliamo negare loro ciò che può farli andare avanti nella vita. Chi non sa usare un computer è escluso dalle innovazioni della società moderna (come chi è analfabeta).
In realtà, dice l'autore proprio all'apertura di questo libro: «Già alcuni anni fa, tra tv, computer, video e
console di gioco, i giovani tedeschi trascorrevano sette ore al giorno davanti agli schermi. La vertiginosa diffusione degli smartphone negli ultimi cinque anni ha modificato questo dato soltanto riguardo a un aspetto: un ulteriore e massiccio incremento dell’utilizzo di tecnologie informatiche digitali. Del resto, lo smartphone è sempre con noi ed è sempre a portata di mano. Se abbiamo bisogno di un’indicazione, non ci rivolgiamo più a un passante, non chiediamo più aiuto a un conoscente per la risoluzione di un problema: come si usa questa lavatrice? per esempio. Poniamo la domanda allo smartphone e, nel giro di una frazione di secondo, riceviamo la risposta dalla «nuvola», per usare il termine con cui oggi amiamo chiamare le gigantesche banche dati collocate da qualche parte nei deserti del mondo. Le tracce che lasciamo nello spazio cibernetico vengono registrate, memorizzate e analizzate. Persino quando usiamo lo smartphone solo come torcia, esso raccoglie e invia dati su di noi, dati che vengono poi interpretati, venduti e usati indebitamente, come sappiamo dalle rivelazioni che il collaboratore della National Security Agency (NSA) Edward Snowden ha rilasciato nell’estate del 2013».
L'autore, attraverso il continuo riferimento a studi scientifici, ci guida a riconoscere gli effetti di ore di permanenza davanti ai televisori, ore di uso degli
smartphone da lui rinominati i «coltellini svizzeri» dell'era dell'informazione, ore spese con i video giochi e con internet, in altre parole a riconoscere quella che lui chiama la «dipendenza senza sostanze».
Passa poi a farci conoscere l'utilizzo che viene fatto dell'analisi degli usi, sopra ricordati, da parte dei possessori di questi cosiddetti
big data. Nel precedente libro aveva detto: «se non paghiamo niente per una certa prestazione, allora non siamo clienti, bensì la merce che viene venduta.» In sintesi big data, big brother e fine della privacy.
Si prendono quindi in esame i tipi di
stress conseguenti agli usi sfrenati su citati e qui l'autore ci ricorda che lo stress è perdita di controllo. Con le tecnologie digitali abbiamo ottenuto il controllo di quasi tutti gli aspetti della nostra quotidianità in cambio della sensazione vaga e diffusa di non aver più in pugno la nostra vita, e in cambio di una vita prevalentemente isolata e solitaria.
Si parla di cyberstress da smatphone e da facebook e cybermobbing e cyberstalking. A fronte di ansie e fobie generate dagli usi smodati delle tecnologie digitali vi sono anche evidenze di usi umanitari di tecnologie come facebook, per esempio dopo il terremoto di Haiti e il terremoto dell'Aquila in cui molte persone si servirono dei social network per mantenere saldi quei rapporti sociali che prima si sviluppavano nell’immediata prossimità, oppure per crearne di nuovi.
Un altro rischio documentato dell'uso improprio della disponibilità di informazioni attraverso i media digitali viene qui definito «cybercondria» cioè la paura di soffrire di una malattia grave che insorge nei pazienti quando usano i motori di ricerca.
Speciale attenzione deve essere dedicata ai bambini, perché il loro sviluppo è tanto più possibile quanti più sono gli stimoli sensoriali offerti. La scienza ha dimostrato che lo sviluppo linguistico avviene maggiormente nell'udire e vedere i genitori parlare. In altre parole una storia letta è molto più efficace che una storia vista da un DVD o letta da un
e-book magari attraverso funzioni speciali tipo read me.
Un ulteriore approfondimento è dedicato al percorso dal comprendere al pensare. L'autore ci ricorda che se si chiede a un bambino di quattro anni di tenere in mano uno spillo, una penna, una chiave, un uovo o un secchio, oppure di aggrapparsi a una sbarra, automaticamente e con incredibile sicurezza egli eseguirà sei tipi differenti di presa, che in medicina hanno nomi precisi perché coinvolgono muscoli, tendini e nervi differenti. Diversamente, passare una mano su una superficie piatta e dunque senza alcuna caratteristica particolare è la cosa più semplice che un bambino possa fare.
Quale utile generalizzazione dovrebbe imparare il nostro cervello da tutte queste esperienze di
swipe? Che tutti gli oggetti del mondo sono uguali al tatto e che, qualunque sia il loro aspetto, si maneggiano allo stesso modo? Ma qualcuno invece sostiene che: «senza bisogno di tastiere e solo per mezzo del touch-screen, abbiamo subito a disposizione, con un solo click, tutte le opzioni di internet e le app. Non è più indispensabile possedere competenze di lettura e scrittura per fruire dei contenuti, il menù spesso configurato con simboli visivi ne consente potenzialmente l’uso anche ai bambini in età prescolare».
L'ossessionante introduzione di mezzi digitali nelle scuole che risultati sta portando?
Gli studi sull’introduzione dei computer a lezione sono deludenti o addirittura imbarazzanti e non giustificano in alcun modo gli investimenti sulle tecnologie informatiche digitali. Anche le ulteriori argomentazioni a sostegno di tali investimenti – trasmissione di competenze mediatiche e garanzia di pari opportunità per i bambini delle classi sociali svantaggiate – non trovano alcun fondamento empirico nei dati raccolti. Senza esagerare si documenta una gioventù distratta, ignorante e sedentaria.
Prima di arrivare alle conclusioni l'autore ci illustra ancora tre effetti concreti dell'uso dei mezzi digitali sulla nostra vita.
L'insonnia digitale causata da impedimento e interruzione del sonno, disturbi nell’addormentamento per via di eccitazione e contatti sociali, influsso negativo della luce blu.
Il cosiddetto
cybersex ovvero sexting cioè scambio via internet di testi e immagini a sfondo sessuale, pornografia digitale e sex on demand, forma del tutto nuova di contatti sessuali.
La solitudine digitale conseguenza dei contatti umani mantenuti attraverso altoparlanti e schermi – che si tratti di
e-mail o skype, di facebook o di chatroom, di smartphone o di PC – e che non possono sostituire il contatto reale con le persone, perché vi rimangono escluse tutte le esperienze sensoriali dirette.
Il libro è un ottimo strumento per riconoscere usi deviati e devianti degli strumenti digitali e se non è in grado di vietare il peggio è sicuramente utile per informarci correttamente dato che ogni affermazione è supportata da studi ed esperimenti scientifici con risultati documentati.
Potrebbe inoltre aiutarci ad assumere, per noi e per i nostri figli, un comportamento ragionevole mostrando che è possibile una realtà in cui non siamo reperibili 24 ore su 24, non abbiamo migliaia di amici che non conosciamo e i cui messaggi ci arrivano solo se c'è un computer che lo desidera; non siamo sotto il controllo di un dispositivo che ci dà molte possibilità ma, allo stesso tempo, ci dice giorno e notte cosa dobbiamo fare e in più ci spia meglio di quanto possano fare i servizi segreti di tutto il mondo.

venerdì 3 febbraio 2017

La lucida analisi del prof. Galli della Loggia sulla crisi del sistema scolastico



Rilanciamo un estratto dall'interessante articolo del prof. Ernesto Gali della Loggia pubblicato su Corriere della Sera il 15 gennaio 2017

(qui puoi leggere l'articolo originale  e completo: QUI)


L’abbandono della scuola al tempo dell’abdicazione della politica
Dagli anni Ottanta i poteri dei ministri sono passati agli esperti, cancellando nei programmi ogni valenza formativa. E, per gli alunni, l’insegnamento ora è insignificante (di Ernesto Galli della Loggia)
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Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia. La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione. Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.
Radici classiche
Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione. È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.
Chi decideva gli ordini di studio
Tutto ciò, ripeto — dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 — è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.
Investimento collettivo
È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare». Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.
(…….)
Vacuo cosmopolitismo
A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale». Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla. Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» — che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito — si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.
Dimensione a a dimensione tecnico-operativa
È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo — si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito — di fare di essa la matrice del carattere e della personalità. La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer. Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo.