Giovedì 15 febbraio sul "Corriere della Sera" è stata pubblicata una lettera-appello di uno studente diciottenne e indirizzata a tutti i genitori. Ci è sembrata così significativa dal punto di vista dell'educazione, che la ripubblichiamo qui.
La versione originale è possibile leggerla qui
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di Enrico Galletti,
studente 18 anni
Il rimprovero, il brutto voto, la parola di troppo, il regolamento di conti a suon di botte. Il
timore di assestare quel quattro a caratteri cubitali perché con ogni
probabilità il professore dovrà vedersela con i genitori. Tra la
malavita e questo lato della scuola, il confine è labile. Tanto labile
da chiedersi se i vecchi tempi - quelli del dietro la lavagna, del «è
così e basta», del sola andata per la presidenza - siano del tutto
finiti. Di anni ne ho diciotto io, mica sessanta. Non sono docente e
nemmeno genitore. Sono studente, con tutto quello che comporta. Vedo i
tele-giornali: il padre che va dal vicepreside e lo manda all’ospedale
perché ha rimproverato suo figlio, la madre che dice al professore che
quel voto non era un quattro, ma che suo figlio meritava sei. Ho visto
una giovane madre andare dal professore di latino e minacciarlo di fare
ricorso al Tar per una versione andata male. La stessa versione di cui
io stesso, a quindici anni, avevo azzeccato forse una riga.
Viene da chiedersi chi fa la scuola.
Se noi studenti, con il nostro entusiasmo, se i professori, con la loro
competenza, oppure i genitori, con quelle loro regole che rischiano di
diventare intimidatorie. Il problema, però, è che quel-l’entusiasmo che
ci si aspetta dalla scuola - deputata a formare nuovi cittadini -
rischia di essere stroncato dall’atteggiamento dei nuovi genitori. I
genitori del «lei non si deve permettere», quelli del «mio figlio me la
racconta giusta e la colpa è sua». La verità è una: è che noi
millennials siamo dei bravi ragazzi. Lo siamo per davvero, ma dobbiamo
avere più coraggio.
Dobbiamo parlare chiaro ai nostri genitori e dobbiamo dar loro un consiglio:
«Genitori, metteteci in discussione». Fa male, è difficile, è un po’
masochista, ma è necessario. Parliamo ai nostri genitori e chiediamo
loro di guardarci con occhi diversi, di mettere in discussione la nostra
verità prima di pestare un professore, anche quando i fatti sembreranno
così cristallini da non destare il minimo dubbio. Chiediamo un passo
indietro, un po’ di malizia ad evitare conclusioni affrettate. Chiediamo
di verificare le parole di noi figli: fonti dirette che possono essere
distorte. Chiediamo di rispettare i ruoli. Genitori, dateci credito ma
trattateci da figli. E se necessario, considerateci figli «bugiardi»,
perché essere figli vuol dire anche questo: distorcere la realtà,
all’occorrenza.
La verità è che io ho paura,
paura di diventare un genitore sindacalista, paura che mio figlio, un
domani, si adagi sulla fiducia che riporrò in lui, che non sia disposto a
farmi capire che si sbaglia a difendere a spada tratta i figli. Ho
paura di diventare io stesso il genitore che aspetta al varco il
professore. Per questo dirò ai miei genitori di mettermi in discussione
ogni giorno, con la stessa affidabilità di sempre ma con una fiducia un
po’ più filtrata. Che ho diciott’anni io, mica più dodici.
E un domani
padre lo sarò anch’io.
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