![]() |
La rubrica di Alessandro D'Avenia su "Corriere della Sera" |
Da gennaio, ogni lunedì sul "Corriere della Sera" il prof. Alessandro D'Avenia, che seguiamo sempre con grande interesse, pubblica un intervento all'interno della sua rubrica "Letti da Rifare". L'articolo di lunedi 12 febbraio ci pare davvero molto interessante perchè muove riflessioni mportanti sul tema "essere genitori" ed in particolare, padri.
Ne riproponiamo qui una parte. Chi volesse leggere l'articolo completo, lo può leggere qui
_______________
(........)
Non è un caso che alcuni istanti siano scolpiti nella nostra memoria di
bambini e adolescenti. La mia memoria e quindi la mia identità è maturata nei
momenti in cui qualcuno mi ha consegnato, a prezzo del suo sudore, dolore,
amore, l’esperienza imperdibile del mondo perché io la custodissi e
l’ampliassi. L’uomo che sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che
ha ricevuto un testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro
debolezze, non badavano solo a se stessi, ma erano occupati a generarmi alla
vita interiore, dove si annida il nome proprio che ciascuno ha e dove si
origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare. Solo le relazioni vere
riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per essere generative
devono prendersi tutto il tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non
donare il proprio tempo a un altro? Me lo confermano tante lettere come questa:
«Vengo da una famiglia che non subisce le conseguenze della crisi e ho due
genitori, separati, con lavori che impegnano quasi la totalità del loro tempo.
Ho tantissimi oggetti: telefono ultimo modello, motorino, vestiti firmati,
tutto quello che voglio me lo comprano. So che starai pensando che sono un
ingrato, ma non mi basta tutto quello che ho. Molte volte capita che i miei
compagni di classe, all’uscita di scuola, vadano in ufficio dal padre per
prendere un panino per pranzo al volo o che le ragazze passino la domenica con
le madri per centri commerciali a fare shopping. Mi chiedo a cosa serva
lavorare tanto se poi alla fine non ti rimane tempo per queste cose. Preferirei
usare la metro o avere un cellulare scassato ma poter andare ogni tanto a
prendere un gelato con mio padre e parlare di politica, calcio, scuola e
lavoro. Oppure mi piacerebbe che mia madre ogni tanto venisse la domenica alla
partita di calcio proprio come fanno tutte le altre mamme. Loro però sono
talmente presi dagli affari che non si accorgono che io viva la situazione come
un disagio. Non c’è niente di peggio che affrontare l’adolescenza senza la
presenza dei genitori».
(........)
La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la
incapacità di generare simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui
si è parte e di affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e
sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita. Nella
lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot) significa
«generazioni» perché è una storia di nomi e di compiti che Dio consegna agli
uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi ma di figli. La crisi della
trasmissione, sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita,
perché taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli. È
questa la condizione originaria e originale di ciascuno, una condizione non
meramente biologica, ma spirituale, che si genera e rigenera attraverso
racconti, gesti, azioni, proprio come quando mio padre mi prendeva in braccio e
lanciava in aria, per spingermi nel futuro con la sua forza, mentre mia madre
voleva tenermi ancorato alla terra del suo grembo: a che serve uno spazio di
radici senza un orizzonte di attesa di rami e frutti? La difficoltà a
consegnare un’esperienza credibile, una storia valida, un’eredità solida, rende
sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro: la politica
promette paternalisticamente il futuro ma nei fatti non lo apre; l’arte si
chiude in discorsi incomprensibili che di fatto disprezzano l’uomo e poi, per
raggiungerlo, si riduce a effimera provocazione o seduzione commerciale; la
scuola diventa addestramento, scatola di prestazioni, ripetizione di pensieri
altrui, anziché acquisizione di un’esperienza custodita e raccontata per essere
vagliata e rinnovata da chi l’ha ricevuta.
Il letto da rifare di oggi, come mostra la lettera, è il silenzioso urlo
di orfani e diseredati, ragazzi e ragazze generati alla vita ma non al senso
della vita, riempiti di oggetti ma privi di progetti, dimenticati da una
politica divenuta impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre
spaventose della dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della
crisi demografica. C’è una paternità che nutre i figli perché siano migliori
dei padri e una invece che, come Saturno, li divora per paura che i figli
caccino i padri. Due visioni antitetiche contenute nei due sogni, relativi al
defunto padre, raccontati dal protagonista del libro di Cormac McCarthy Non è
un paese per vecchi: «Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in
città e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era
come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, io ero a cavallo e
attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui
mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava
a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi
passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un
corno, come usava ai vecchi tempi. E sapevo che stava andando avanti per
accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo,
e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi». I veri padri
aprono la strada, portano il fuoco e lo donano ai figli, nella notte fredda e
buia della storia, perché poi toccherà a loro fare altrettanto, di generazione
in generazione.
Ma come possiamo crescere quando i padri rinunciano al loro ruolo di
aprire la strada a chi viene dopo di loro? Come possiamo sperare quando i
maestri perdono il fuoco?
Possiamo ancora essere figli di qualcuno?
Nessun commento:
Posta un commento