Contatti
Amici di Mariele cooperativa sociale onlus | Vicolo Parco sud 2 | 40018, San Pietro in Casale (BO)
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testo
“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,
lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.
La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola
è indipendente dal controllo dello Stato”
Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918
venerdì 4 settembre 2020
Da oggi è on line il sito della nostra scuola
lunedì 31 agosto 2020
Oggi sono 150 anni dalla nascita di Maria Montessori
Divenne famosissima nel mondo grazie al famoso metodo educativo per bambini che prese il suo nome, ovvero il “Metodo Montessori”. Questo metodo inizialmente fu utilizzato in Italia, ma a breve fu adottato in tutto il mondo, ed ancora oggi le scuole montessoriane vengono preferite ad altre.
Figlia di Alessandro Montessori e Renilde Stoppani vide però come figura da seguire lo zio Antonio Stoppani. Antonio Stoppani era un abate e scienziato e cercava da sempre di dimostrare la convivenza tra fede e scienza. La giovane Maria Montessori ebbe nell’abate Stoppani il punto di riferimento per l’avvio agli studi e per la conoscenza dell’epoca. Dalla madre invece ricevette un sostegno costante alle sue idee innovative ed verso alcune scelte troppo futuristiche per l’epoca.
A Roma dovette abbandonare l’idea di iscriversi al corso di Medicina poiché riservata esclusivamente agli studenti del Liceo Classico. Decise quindi di iscriversi alla facoltà di Scienze e dopo due anni di trasferirsi alla facoltà di Medicina. Riuscirà a laurearsi brillantemente in questo corso di studi, risultando così la terza donna a ottenere questo risultato accademico.
Maria Montessori manifestò immediatamente un interesse precoce nei confronti dei bambini con maggiori difficoltà, frequentando quindi assiduamente i quartieri più poveri di Roma ed informandosi sempre maggiormente sugli argomenti di igiene medica.
Decise quindi di specializzarsi in neuropsichiatria infantile dedicandosi in maniera assidua alle ricerche in laboratorio. Si concentrò in modo particolare proprio sui batteri e le malattie presenti nei quartieri più poveri di Roma che aveva precedentemente frequentato.
Nel 1907 a San Lorenzo, Roma, aprì la prima Casa dei Bambini.
Durante un congresso in America nel 1913 verrà presentata come la donna più interessante d’Europa ed i suoi metodi divennero modelli mondiali nell’istruzione dei bimbi di tutte le idee.maria montessori
Con la comparsa del ventennio fascista in Italia Maria Montessori venne accusata di legami con il regime. In realtà a Maria non interessavano minimamente le idee fasciste ma collaborava con quest’ultime solo per arrivare al suo fine ultimo: la costruzione delle Casa dei Bambini in modo da poter tirare fuori i fanciulli dalla strada. Sotto questo aspetto soventi sono le critiche mosse nei suoi confronti, che devono essere assolutamente rivalutate.
Nel 1926 organizzò il primo corso di formazione nazionale che preparava gli insegnanti ad utilizzare il suo metodo. Inutile dire che fu un vero e proprio successo con oltre 180 insegnanti provenienti da tutt’Italia per poter apprendere le idee al dir poco rivoluzionarie. Saranno proprio queste però a costringerla ad abbandonare l’Italia nel 1934. Sempre negli stessi anni verranno chiuse tutte le scuole che insegnavano secondo il suo metodo sia in Italia che in Germania.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si trova con il figlio in India. Qui fu internata in quanto proveniente da un paese nemico. Riuscirà a tornare nella sua amata Italia solamente nel 1946 per poi trasferirsi da degli amici nei Paesi Bassi.
Il 6 maggio del 1952 morì a Noordwijk, Olanda meridionale.
venerdì 7 agosto 2020
Siamo scuola primaria paritaria “Mariele Ventre”: lettera aperta
Chiunque educa fa un servizio pubblico!
Sono passati 10 anni da quando questa appassionante avventura ha mosso i suoi primi passi, iniziando da un gruppo di famiglie che desideravano dare continuità educativa all’esperienza vissuta all’asilo parrocchiale di San Pietro in Casale.
Adessoa.
In una recente intervista Luigi Berlinguer, ex Ministro dell’Istruzione che ha voluto e ottenuto la legge 62/2000 sulla parità scolastica durante il secondo governo D’Alema, ha detto: “Lo ribadisco con chiarezza e forza: chiunque svolga una funzione di insegnamento svolge un servizio pubblico. Chiunque, ripeto.” (Avvenire, 8 marzo 2020).
Chiunque insegna contribuisce al bene di tutti; lo vediamo quotidianamente nelle nostre scuole statali, parrocchiali e anche in tante associazioni sportive dilettantistiche del nostro territorio. La stessa cosa ci ha mostrato Mariele: educando, ha insegnato a cantare ad un’intera generazione.
Desideriamo ora dire grazie al Sindaco e alla Giunta di San Pietro in Casale, per la presenza attenta ed intelligente che da sempre ci riservano. Per questi dieci anni vogliamo poi ringraziare Don Dante e tutti i parrocchiani di San Pietro; senza il loro concreto sostegno quest’Opera non sarebbe mai partita. Grazie anche a tutte le famiglie che scelgono e amano la nostra scuola e a tutte quelle persone che gratuitamente dedicano parte del loro prezioso tempo per farla crescere.
Nel tempo ci siamo accorti tuttavia che spesso è più facile demolire che costruire, soprattutto senza conoscere. Costruire è un lavoro, e bisogna amare per farlo. Per questo ci piace incontrare chiunque desideri saperne di più, perché comprenda davvero cosa ci muove.
Noi intanto desideriamo continuare ad educare.
Il Direttivo cooperativa sociale “Amici di Mariele” onlus
sabato 1 agosto 2020
L'ex ministro Berlinguer su legge scuole paritarie: «Legge di alto valore costituzionale»
Articolo pubblicato su Avvenire domenica 8 marzo 2020 a firma Enrico Lenzi (qui originale)
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Una «legge
di rilievo
costituzionale» e «per certi aspetti rivoluzionaria». Venti anni dopo Luigi
Berlinguer, ministro della Pubblica Istruzione all’epoca del varo, è fermamente
convinto di quel passo che ha cambiato il volto del sistema scolastico
italiano. «La legge 62/2000 viene definita legge sulla parità scolastica –
sottolinea l’ex ministro – , ma è stata qualcosa di più, di molto di più».
In che
modo? Basta
leggerne il titolo che volli darle: 'Norme per la parità scolastica e
disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione'. Dunque non solo parità
scolastica, ma anche diritto allo studio e, cosa inedita, all’istruzione'.
Perché
definisce inedito parlare di diritto all’istruzione? Perché nella nostra
Costituzione sono sanciti esplicitamente diversi 'diritti', non quello
all’istruzione che compare più indirettamente. Ebbene con la 62/2000 per la
prima volta una legge parla esplicitamente di questo diritto. Ecco perché
definisco questa una legge di rilievo costituzionale.
Ma questo
passaggio era chiaro a tutti sin dall’inizio? Non si direbbe viste le
resistenze e le polemiche che accolsero la legge. Come visse quei giorni? Venni sollecitato dalle forze
cattoliche a porre mano alla questione della parità scolastica, contro la quale
si schierarono esponenti della sinistra estrema. Ed io volli però dare vita a
una legge che non solo creasse un sistema paritario, ma riconoscesse anche che
proprio quel diritto all’istruzione, di cui ritengo depositario qualunque
bambino nato in questo Paese. Ecco perché non mi piace quando si parla di
'scuola che deve essere inclusiva', come se gli studenti fossero degli ospiti
('inclusi') e non, come invece sono, cittadini del mondo della scuola.
Insomma
una conseguenza di quel diritto all’istruzione della seconda parte del titolo
della legge 62/2000? Certamente,
anche se a tutti non fu chiara subito la portata di questa legge. Da una parte
essa dava risposta a quel dettato costituzionale che, all’articolo 33 prevede
che 'Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione',
fino a quel punto inevasa. E non mancavano voci di chi sosteneva che lo Stato
non era obbligato a dare una risposta in tal senso. Dall’altro lato sentivo il
bisogno di dire in modo chiaro ed esplicito l’esistenza di un vero e pro- prio
diritto all'istruzione.
A distanza
di 20 anni ritiene che siano stati raggiunti gli obiettivi che si proponeva? Dico che questa legge non è stata approvata
invano. Lo dico guardando agli aspetti positivi sul fronte della qualità
dell’offerta formativa che il sistema scolastico offre. La stessa scuola
paritaria ne ha tratto giovamento sul fronte della qualità dell’offerta, grazie
anche al dover rispettare parametri chiari: ad esempio, l’obbligo di avere
docenti abilitati come nelle statali. Sono poi le stesse famiglie a dimostrare
di apprezzare questo miglioramento scegliendo le scuole paritarie che riescono
a dare risposte alle loro esigenze con meno vincoli rispetto alla statali.
Un elogio
inaspettato. La 62
ha impresso un cambiamento, uno stimolo ai gestori delle scuole paritarie
proprio per promuovere la qualità del-l’offerta formativa. E questo risultato
lo attribuisco alle norme che abbiamo varato allora.
Ma sembra
dura a morire l’idea che a fornire un servizio pubblico sia solo la scuola
statale. Lo
ribadisco con chiarezza e forza: chiunque svolga una funzione di insegnamento
svolge un servizio pubblico. Chiunque, ripeto. Che sia lo Stato, un Ente locale
o un privato. Il servizio educativo è sempre pubblico, nel rispetto delle norme
stabilite.
Certo
resta il problema di garantire questa parità anche sotto l’aspetto economico.
Che ne pensa? Ammetto
che nel 2000 cercai di mettere in secondo piano l’aspetto economico, anche se
presente nella legge, per evitare che venisse bloccata. Dovevamo dare risposte
di valore costituzionale. Non potevamo rischiare. Certo a 20 anni di distanza
molte cose sono cambiate e credo che lo Stato possa con tranquillità
riconoscere fondi alla scuola paritaria come già fa.
Venti anni
dopo quali passi pensa si debbano ancora compiere? La società italiana deve
comprendere che ha bisogno della scuola, di tutta la scuola. Non può immaginare
di avere una scuola abbandonata a se stessa e su cui non si investe. Sarebbe
ridursi alla barbarie. Ecco perché tutti dovremmo sentire come un dovere civico
investire sul nostro sistema scolastico partendo da quella del nostro
quartiere. È difendere il patrimonio di una società evoluta. È questa la
battaglia che sto conducendo in questi anni. Dobbiamo conquistare gli italiani
a questo tema. Avere a cuore la scuola, capire l’importanza.
Eppure di scuola si parla spesso sui giornali. È diventata anche terreno di scontro politico. Si pensa addirittura ad aumentarne l’obbligo. Non basta? Voglio essere chiaro: la scuola non è solo il luogo dove si impara a leggere, scrivere e far di conto. Deve diventare anche il luogo dove i futuri cittadini imparino a pensare con la propria testa. A diventare cittadini consapevoli. A saper vivere la democrazia guardando ai problemi e valutando le soluzioni. Abbiamo vinto la sfida dell’analfabetismo di base. Sconfiggiamo ora l’analfabestimo sulla democrazia. È il cammino che la 62 ha tracciato venti anni fa. non si parli più di 'obbligo': ora il vero obiettivo che a scuola, fino alle superiori, vadano tutti. Tutti. Effettivamente. È un obiettivo 'sociale' rivoluzionario. È un’altra società.L’ex ministro Berlinguer: è stata una rivoluzione che ha fatto bene a statali e paritarie «Diede attuazione all’articolo 33 in cui si parla del diritto di Enti e privati di istituire scuole»
domenica 12 luglio 2020
Consigli per letture estive: "Non date le dimissioni" di Mario Chiarapini
mercoledì 24 giugno 2020
Ripartire dall’educazione. Che cosa ha imparato la scuola in questo lockdown (di Elena Ugolini)
Elena Ugolini è preside del Liceo Malpighi di Bologna ma è stata in pasato anche membro della cosiddetta “Commissione dei saggi” che preparò la riforma Berlinguer nel 2000 e sottosegretario dal 2011 al 2013 al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con il Ministro Francesco Profumo durante il Governo Monti.
lunedì 15 giugno 2020
Mario Salisci "Famiglia e scuola sono state i due fronti cruciali della crisi Covid"
Associazione Articolo 26 ha recentemente organizzato una interessante intervista a Mario Salsci, tutta da ascoltare, su famiglia e scuola in una società che dovrebbe avere che priorità la crescita ed il bene dei bambini e ragazzi.Foggia, incontro con il sociologo Mario Salisci
Mario Salisci è Sociologo e formatore, docente di Sociologia dei Processi Culturali e Sociologia della Famiglia all'Università Lumsa di Roma e Direttore dell'Istituto di Cultura e Lingue delle Marcelline di Genova. Collabora con il Miur e con il Coni per la ricerca sui Licei Scientifici a Indirizzo Sportivo e come esperto sociologo per il Monitoraggio dei LiSS Italiani. Dal 2008 collabora con diverse istituzioni, enti pubblici e organizzazioni private come ricercatore e formatore e offre percorsi di coaching individuali.
Nel 2016 è stato nominato Membro Onorario dell’Associazione Medici Cattolici Italiani - AMCI, per il contributo dato agli obiettivi etici e culturali dell’Associazione. Nel 2012 è stato premiato a Denver negli Stati Uniti dall’American Association for the Study of Religion per la ricerca The Power of the Prayer, nell’ambito del convegno dell’American Sociological Association. I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue.
martedì 19 maggio 2020
Restano aperte le iscrizioni per il prossimo anno scolastico 2020/21
lunedì 20 aprile 2020
Annamaria Bax: "Educare al tempo del coronavirus"
“Il mondo è cambiato molte volte e sta cambiando di nuovo. Tutti noi dovremo adattarci a un nuovo modo di vivere, di lavorare e di creare relazioni. La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito, e lo farà presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana o addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più. E come per tutti i cambiamenti, ci saranno alcuni che ci perderanno più degli altri, e saranno quelli che hanno già perso troppo”, spiega Gordon Lichfield, direttore del Mit Technology Review.
In uno scenario come questo, così improvviso e così drammatico, ognuno è chiamato a fare la sua parte: dall'agire responsabilmente osservando regole e divieti invocati dall'autorità sanitaria al dare il proprio contributo nel settore di vita che gli è più prossimo. E’ una chiamata innanzitutto morale. E, fra i tanti, penso alla scuola che sta dando prova di grande coraggio e abnegazione. E’ il suo ennesimo banco di prova che, ancora una volta, affronta con dignità e competenza. Eh sì perché la scuola, nonostante la vita così complessa che la caratterizza, i problemi e gli affanni molteplici che l’attraversano, gli investimenti e le risorse che negli anni hanno subito fasi alterne non sempre rassicuranti, si conferma una indispensabile comunità educante e formativa, secondo la migliore tradizione pedagogica che ne ha fatto, per tanti anni, un modello internazionale.
L’ho premesso: i problemi ci sono e sono tanti, anche in questa fase che stiamo vivendo e che ha indotto la scuola a ripensarsi mediante la didattica a distanza; problemi di infrastrutture insufficienti in molte aree del paese, di scarsa dotazione di strumenti multimediali per alcuni studenti e famiglie, di scelte formative che non sempre hanno privilegiato o ampliato la cultura digitale dei docenti. Sotto questi aspetti, mi auguro che ne usciremo tutti – dal mondo della scuola ai cittadini al decisore politico – rinnovati e convinti a progettare e investire per il nostro futuro, compreso quello della scuola, con maggiore consapevolezza e lungimiranza.
Ciò detto, torno a sottolineare l’importanza grandiosa del compito che la scuola sta assolvendo in un momento come questo: quello di coltivare la relazione educativa ininterrottamente dando un senso nuovo all’apprendere, durante un tempo vuoto, quasi sospeso, che però ci aiuterà molto a crescere. E’ difficile sostituire il dialogo educativo che si nutre di presenze, di sguardi, di gesti, di toni di voce con la tecnologia, per quanto raffinata e indispensabile. È evidente che nessuna didattica a distanza potrà veicolare il calore di un gesto, di un abbraccio, la presenza rassicurante dell’insegnante come pure il suo messaggio di rimprovero se necessario: mille sfumature di un rapporto fatto di gesti, sguardi, parole resi plastici dalla vicinanza, che acquistano senso nella prossimità poichè incrociano occhi e pensieri.
E allora lo sforzo è quello di costruire un dialogo diverso che, seppur costretto a rinunciare alla presenza, non abbandona però la ricerca dell’altro ricorrendo, per questo, a tutte le forme alternative disponibili comprese le nuove tecnologie. E dal Ministero fino alle case editrici più accreditate, tutti hanno suggerito e messo a disposizione strumenti, piattaforme, piste di ricerca, materiali di lavoro.
Tuttavia l’obiettivo di fondo non è quello di replicare, in digitale, la vita di classe che resta per sua natura insostituibile, quanto piuttosto la possibilità di mantenere in vita il dialogo diretto tra gli insegnanti e i loro allievi, da vivere all’inizio tra l’inedito e il sorprendente ma poi come un impegno sereno e speciale attraverso cui scoprire nuovi contenuti e nuovi significati, scrutare le diverse possibilità di esprimersi, sempre con il desiderio di ascoltare e farsi ascoltare. E soprattutto di ritrovarsi, ogni mattina. Come sempre. Non può mancare in questi giorni la presenza dei docenti, per alimentare il filo conduttore di un rapporto educativo diretto, che fa star bene bambini e ragazzi in un tempo quasi indecifrabile. E’ questo, adesso, il compito più importante. Lo sostiene e lo testimonia anche una mamma speciale con la sua lettera aperta rivolta agli insegnanti e postata sul suo profilo Facebook. Parlo della dottoressa Elena Borsotti, medico rianimatore presso un ospedale lombardo. Di seguito le sue parole, struggenti e lucidissime. “Sono un anestesista rianimatore e lavoro in terapia intensiva con pazienti Coronavirus gravissimi. Tutto il personale sanitario è impegnato a tempo pieno in questa terribile emergenza. E’ una battaglia quotidiana e durissima che richiede uno spiegamento immenso di mezzi e risorse sia umane che materiali e che mette a dura prova sia il fisico che la mente. Alcuni di noi sono già o saranno contagiati. Alcuni di noi non vedranno la fine dell’epidemia. Ma questo è il nostro lavoro e lo facciamo con anima e corpo.
Ma sono anche una madre. La mia unica figlia è una vostra studentessa. Questa lettera aperta vuole essere un invito a continuare a esserci, nonché una richiesta di aiuto se non un lascito morale. Il personale docente ha un ruolo educativo fondamentale, non solo in termini di pura didattica, ma anche e soprattutto nel senso più ampio di riferimento, guida e formazione di individui adulti. Ora più che mai la vostra presenza è fondamentale.
Come noi ci prendiamo cura dei nostri pazienti, voi oggi ancor più di prima siete indispensabili nel prendervi cura dei nostri ragazzi, della nostra generazione futura, perché siete chiamati all’arduo compito di contenere i danni psicologici che questa epidemia ha ed avrà sugli adolescenti. Siete i loro compagni di viaggio in questo tempo sospeso. Nella difficile fase evolutiva di transizione, che è l’adolescenza, caratterizzata di base da profonde incertezze ed insicurezze e dal bisogno di prendere le distanze dalle figure genitoriali, è necessaria la presenza di punti di riferimento adulti solidi e sicuri di cui potersi fidare e con cui confrontarsi. Alcuni ragazzi avranno la fortuna di passare più o meno indenni attraverso questa tragedia perché sapranno reinventarsi; alcuni avranno l’occasione per scoprire parti di sé nascoste. Ma altri invece dovranno confrontarsi con dolorosi lutti, con la perdita, con la mancanza, con lo smarrimento.
Voi siete i punti di riferimento in un momento di profonda incertezza sul futuro. Con il vostro esserci attivamente attraverso il coinvolgimento, la discussione, l’analisi della situazione, la comprensione, il conforto, il supporto, potete favorire quel senso di continuità e sicurezza così necessario in adolescenza. I nostri ragazzi hanno bisogno di sentirsi soggetti attivi e partecipi in una situazione che purtroppo si trovano a dover subire. Voi siete le figure adulte attraverso le quali questo bisogno può essere soddisfatto. Nel poco tempo in cui io sono a casa, quando non crollo sfinita sul letto, guardo mia figlia, ed attraverso lei guardo tutti gli adolescenti. Per chi è giovane e con una vita di fronte, il concetto della malattia e della morte è qualcosa di molto lontano. Ora la malattia e la morte sono prepotentemente entrate nelle loro giovani vite. Per alcuni solo come parole e paure, per altri purtroppo come realtà e dolore. Fuori dalla porta di casa, da cui i nostri ragazzi uscivano con gioia e senso d’indipendenza e di libertà, adesso c’è un mostro invisibile, che può attaccare chiunque silenziosamente. In un’età in cui la socializzazione, la frequentazione dei coetanei e la vita fuori dalle mura domestiche sono fondamentali e necessarie, adesso c’è una vita di reclusione domiciliare. Tutte le attività esterne sono precluse. Sulle città incombe un silenzio inquietante ed innaturale. Per molte famiglie la permanenza in casa potrà essere momento di arricchimento e riavvicinamento, per alcune potrà essere fonte di conflittualità e fratture.
In questo contesto innaturale alcuni si troveranno oltre che prigionieri anche vittime. Nei profondi occhi azzurri di mia figlia vedo un’angoscia in più, quella di chi ha uno o entrambi i genitori direttamente impegnati in questa battaglia. Sono occhi privati della presenza parentale, in cui leggo la paura per me quando esco di casa e il sollievo quando rientro, occhi sempre indagatori alla ricerca dei segnali di stanchezza, di tristezza, occhi impotenti alla ricerca della verità nascosta, in uno stato di allerta continuo. Come i suoi, mille altri occhi hanno lo stesso sguardo. Noi genitori quotidianamente vi affidiamo quanto di più prezioso possediamo: i nostri figli.
Come madre vi ringrazio per la vostra presenza come adulti di riferimento e vi incoraggio nel proseguire il vostro ruolo formativo. Come anestesista rianimatore il mio cuore al lavoro sarà più leggero sapendo che altre figure importanti si stanno occupando non solo della didattica, ma anche della formazione umana e dell’integrità psicologica di mia figlia e di tutti i ragazzi loro affidati. Quando questa terribile tragedia che si sta consumando sarà finita, quando si rientrerà alla cosiddetta normalità, i vostri studenti ritorneranno da voi. Ma non saranno gli stessi di prima. Voi sarete fondamentali nell’assisterli nella loro ripresa, fondamentali nell’aiutarli a mantenere la fiducia in loro stessi, a superare le loro angosce, a riparare le loro ferite. Sarete più che mai fondamentali nel compito di continuare a formare adulti solidi. Grazie di cuore”.
Vorrei chiudere soltanto con una esortazione: gli italiani ringrazino commossi tutti coloro che in questa tragedia si stanno prendendo cura, in modo diverso, dei loro concittadini, provvedendo a risanare i corpi martoriati oppure a nutrire, a sollevare le anime e le menti di bambini e ragazzi ora disorientati.
Articolo pubblicato su In Terris (qui versione originale)
giovedì 9 aprile 2020
Perché mi hai abbandonato, la storia del Messiah di Handel
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«Spense la luce, avanzò a tentoni nella camera da letto e si lasciò cadere sul giaciglio: le lacrime sgorgarono. Soltanto dormire, solo dimenticare, non essere. In preda all’angoscia giaceva accasciato sul letto. Nulla poteva più dargli consolazione, perché Dio l’aveva abbandonato ed estromesso dal sacro fiume della vita!».
Così Stefan Zweig descrive la disperazione del grande compositore Georg Friedrich Händel, in uno dei magistrali racconti di Momenti fatali, libro che narra gli istanti in cui grandi uomini incontrarono il loro destino. Per Händel avvenne in una soffocante notte di agosto del 1741: la vena creativa era prosciugata, nessuno gli commissionava nuovi lavori e i soldi erano finiti.
A 56 anni, senza musica, era perduto e voleva morire: «In un accesso di collera pronunciò le parole di Colui che moriva sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”». Parole che mi fanno pensare a un amico solo e in fin di vita a causa del virus; e mi ricordano quei momenti in cui sembra di aver perso tutto: l’ispirazione, la fiducia, la speranza, la vicinanza degli altri e di Dio.
Questo abisso è in realtà un «passaggio» (questo significa Pasqua in ebraico): anche Cristo sperimenta il muro invalicabile della solitudine, ma lo trasforma in apertura. Il Figlio infatti chiede al Padre perché l’abbia abbandonato con le parole iniziali del profetico Salmo 21, che non sono un urlo disperato, ma l’atto di fiducia di chi, non potendo più confidare nelle proprie forze, si affida, come mostrano le sue ultime parole: «Padre, nelle tue mani metto la mia vita». Voler ricevere la vita dal Padre: questa è la fede, dono dato a chiunque accetti di non potersela dare da solo.
Quando perdiamo ciò su cui puntiamo di più (amore, affetti, carriera), la vita ci si mostra nella sua nuda fragilità e: o ci si perde o ci si ritrova una volta per sempre, come accadde a Händel. In preda all’angoscia del suo Getsemani personale, si alzò ed entrò nello studio: sul tavolo c’era una busta dimenticata. Gliel’aveva recapitata un amico poeta, era il testo per una composizione sacra, che solo lui poteva musicare: «Alle prime parole tremò. “Comfort ye”, così iniziava. “Consolati!”: emanava un potere magico da questa parola, anzi no, non una parola ma una risposta, la risposta di Dio, che scendeva dai cieli fino al suo cuore dolente. «Consolati», resuscita l’anima al suono di questa parola creatrice, generatrice! Non aveva finito di leggere e già le parole si scioglievano in melodia e canto. Quale gioia, le porte si erano spalancate: sentiva di nuovo in musica!». Dio aveva risposto proprio a lui, che finalmente lo riconosceva come Fonte dell’unica cosa in cui credeva: la musica.
E così dalle parole inattese dell’amico sgorgò il Messiah, capolavoro noto a tutti perché almeno una volta ne abbiamo sentito il portentoso Alleluia corale. Per tre settimane Händel si «abbandonò» alla creazione, dimenticando il giorno e la notte, come accade quando l’eterno apre un passaggio nella storia attraverso quella porta che solo noi possiamo aprirgli. Quando gli chiesero di donare a malati e carcerati i profitti della prima (il 13 aprile del 1742), rispose: «No, non voglio denaro per quest’opera, non ne accetterò mai, io che ne sono debitore a un Altro. Apparterrà per sempre ai malati e ai reclusi, perché io stesso ero infermo, e mi ha risanato, ero prigioniero, e mi ha redento». Così fu fino al 6 aprile (oggi) del 1759 quando, 74enne, cieco e malato, presagendo il «passaggio» finale, volle dirigere di persona il Messia: era il suo a Dio. Pochi giorni dopo, il 14 aprile, sabato santo, entrava nella vita eterna dalla porta che s’era aperta con la sofferta bellezza della sua opera.
La Pasqua è proprio l’opera che Dio fa per restituirci la somiglianza con Lui: essere creatori di vita. La cosa di cui più sono grato a Dio è infatti che posso attingere sempre alla fonte da cui sgorgano l’inventiva, l’iniziativa, il coraggio tipici di chi è innamorato, anche se non ne sono all’altezza. Noi ci realizziamo portando a compimento le potenzialità della vita (nel morire Cristo dice «Tutto è compiuto») nostra e altrui, ciascuno nel suo ambito, ma le nostre energie creative sono spesso bloccate. Fatti per ricevere e dare vita (creare e crescere hanno la stessa radice), quando creiamo qualcosa di vero, bello e buono, anche minimo, cresciamo e facciamo crescere il mondo. Se invece siamo preda di forze distruttive, tendiamo a strappare la vita a cose e persone: de-cresciamo e facciamo de-crescere il mondo. La Pasqua serve a ritrovare la gioia di «fare la vita», in e attorno a noi, diventando noi stessi il «passaggio» attraverso cui l’Amore entra nella storia, grazie a ciò che creiamo. Così fu per Händel, che salvò se stesso e tanti uomini abbandonati, attraverso la musica che pensava di aver perso. In realtà aveva perso Dio, non la musica: ascoltare per credere. Auguri!
venerdì 14 febbraio 2020
La spada nella roccia”: in un vecchio cartone, il cuore dell’educazione (da Il Sussidiario)
Una delle avventure più entusiasmanti da vivere con i figli è rivedere insieme a loro i cartoni animati della propria infanzia, nel momento in cui un fenomeno incredibilmente eccezionale va a palesarsi ai nostri occhi normalmente resi già sapienti: in una storia conosciuta a menadito, lo scorgere in controluce percorsi, tracce, spunti e significati di cui per anni si è beatamente ignorata l’esistenza e che ad un certo punto, accendendosi, illuminano l’orizzonte sempre verde della comprensione. Percorsi, tracce e significati, che in un misterioso e tenace legame tra ciò che eri e ciò che sei ti aiutano a svelare meglio dove affondano certi lati, certi gusti, certe preferenze di te stesso che si sono costruite insieme a quello che sei diventato oggi.
Questa avventura, credo comune ai più, per me si è palesata con “La Spada nella Roccia” – il grande classico Disney del 1963, l’ultimo ad essere prodotto interamente sotto la supervisione di Walt Disney – che è sempre stato il mio film Disney preferito e che oggi, alla luce di quanto detto, lo è ancor più. Non a caso, lo faccio vedere sempre a scuola al primo anno delle superiori.
Per una serie di motivi.
Innanzitutto, perché racconta splendidamente la dinamica che si innesca tra maestro e allievo. Il maestro sa già il destino dell’allievo, cioè sa che ogni ragazzo è destinato a cose grandi nella vita: trasformare la propria esistenza in un capolavoro. Qualcosa di unico, di eterno, di propriamente “suo”. Un maestro che non sappia questo di ogni suo ragazzo è un cattivo maestro. Merlino lo sa, e sapendo qual è lo scopo di Semola calibra ogni azione per quella meta. Nulla è a caso nel suo agire, tutto è funzionale allo scopo. Rispetto all’odierno vagabondare più o meno scoperto di tanti genitori e insegnanti mi sembra una prospettiva da rivalutare.
In secondo luogo, ne “La Spada nella Roccia” è descritto magnificamente cosa sia lo studio: non un freddo nozionismo da mandare a memoria ma un’esperienza affettiva ed emozionale di conoscenza e arricchimento. Merlino non spiega a Semola come sono fatti i pesci, glieli fa “provare”; non spiega a Semola come sono fatti gli scoiattoli, glieli fa “vedere”, innescando in lui l’immedesimazione totale con l’oggetto del sapere, che sposta e crea punti di vista nuovi e arricchenti. L’apprendimento, d’altronde, è un avvenimento di conoscenza che trascina tutto di sé, ragione e affezione, come immergersi in un tramonto o nel volto dell’amata.
Non solo. Merlino accetta che può non essere lui il più adatto ad in-segnare, come nel caso della lezione sugli uccelli quando, con una ferita nell’orgoglio non indifferente, cede il posto al gufo Anacleto, evidentemente più esperto di lui (che ne sapeva solo in teoria) in materia di volo. D’altra parte, il vero maestro sa che l’allievo non è “roba” sua, e può non essere lui la miccia con la quale accendere il cuore di un ragazzo; per questo sa anche farsi da parte quando il bene del prossimo lo richieda. Merlino si arrabbia, brontola, si ammutolisce, ed è per noi una consolazione perché ci dice che l’insegnante (o il genitore) non è l’essere perfetto, non è l’incorruttibilmente puro – come a volte il potere ci ricatta di dover essere – ma è un poveraccio come gli altri che tuttavia sa quel che serve sapere, senza il quale tutto si trasformerebbe in dottrina: sa, cioè, dove deve andare il cuore per non morire. Il suo e quello di chi incontra.
Inoltre “La Spada nella Roccia” delinea magistralmente il paragone tra i due eterni prototipi di educazione: quella incentrata sul solo rigore e la sola disciplina – propria di sir Ettore, il padre adottivo di Semola (che pure vuol bene al ragazzo) – e quella animata dalla passione e dalla tensione al destino di Semola, che è propria invece di Merlino. La prima non genera, è sterile, come si vede nel figlio naturale di sir Ettore, Caio, incapace di vivere se non nascosto nell’ombra ingombrante del padre, il quale a sua volta può solo scaraventargli addosso i propri ambiziosi e famelici piani; la seconda, invece, dà frutti, perché si pone al servizio del fanciullo senza la pretesa di conoscere già quale sia il bene più vero e più autentico per lui.
La sfida finale con Maga Magò è poi strepitosa: Merlino è meno scaltro, meno furbo, meno diabolico della perfida ma simpatica Magò, eppure vince a man bassa e di gran lunga il duello. Perché? Perché sa di più, conosce più cose e per questo sa andare più a fondo delle innumerevoli e variopinte sfaccettature che di volta in volta sa assumere la realtà. Non ha bisogno di bluffare, gli basta sapere che esiste un germe invisibile ma potente per stendere l’ignara e vendicativa Magò.
Che lezione anche per i nostri ragazzi! In classe faccio sempre questo esempio: se ho un velo di tristezza che mi avvolge il cuore, come spesso capita, un conto è se mi fermo a dire: “sto male” o “sono triste”, rimanendo in un giudizio vago e fumoso su ciò che mi sta capitando, altro conto è se arrivo a chiamare per nome quel malessere, in qualche modo “possedendolo”, e dire ad esempio: “sono malinconico”, “sono disilluso”, “sono frustrato”. Sono due mondi! Solo se arrivo fin lì sono poi in grado di penetrare nei più labirintici rivoli dell’esser nostro, così da conoscermi meglio e meglio conoscere la realtà che mi circonda. Altrimenti posso solo subire ciò che mi capita. Quanto insondabile mistero può esserci nelle scatole cinesi di cui è fatto il nostro animo! In questo senso, dico sempre ai ragazzi: “conoscere i vocaboli non serve, comanda!” Come Merlino, che comandando, vince. Wittgenstein diceva: “i confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo”. E aveva ragione da vendere.
Torniamo allora a guardare i cartoni animati: sarà un modo, l’ennesimo, per riscoprirci figli dei nostri figli. E poter così, rigenerati, continuare a generare.