Questa settimana proponiamo una riflessione su un tema molto importante per l'educazione dei nostri bambini: lo sviluppo del talento.
La riflessione ci viene da un'insegnate un pò speciale: il professor Alessandro D'Avenia.
Il prof. D'Avenia da l'idea di essere uno che non si arrabbia mai. Nato a Palermo 36 anni fa, oltre ad insegnate in un liceo milanese da oltre 13 anni, è anche scrittore e sceneggiatore italiano. Ha scritto due romanzi "Bianca come il latte, rossa come il sangue" (2010) e "Cose che nessuno sa" pubblicato l'anno successivo. Nella stagione scorsa è uscito il film tratto dal suo primo libro "Bianca come il latte, rossa come il sangue" con Luca Argentero e Aurora Ruffino
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Alessandro D'Avenia |
Com'è sta' storia del talento?
Il talento è la forza di gravità che porta un uomo e una donna ad occupare il proprio posto nel mondo, perché è il suo modo unico e irripetibile di relazionarsi con il mondo (il creato, gli altri, Dio).
Un mio amico architetto mi ha spiegato qualche giorno fa che il suo “talento” è nato dal fatto che, avendo perso il padre da bambino ed essendo il maggiore, ha dovuto risolvere mansioni spesso paterne in famiglia. Che c’entra con l’architettura? Una delle prime cose che gli capitò di dover risolvere ancora dodicenne fu un trasloco e toccò a lui ricostruire in pianta la nuova casa e collocare i mobili della vecchia, così da capire cosa portare, dove collocare ogni pezzo. Una mancanza lo ha reso creativo.
Il talento è un insieme complesso di caratteristiche maturate durante l’infanzia (soprattutto) e l’adolescenza (il loro emergere), frutto di predisposizione naturale e di fattori ambientali, che non si ripetono mai due volte, neanche in due gemelli.
L’esempio del mio amico mostra che la privazione genera creatività. Si sa che il bambino privato di qualcosa è costretto a mettere in atto la sua immaginazione per risolvere il dolore. Se un bambino chiede un secondo gelato e i genitori pur di non sentirne i capricci glielo comprano non solo lo viziano, ma gli tarpano le ali. Chi ha tutto non comincia mai la ricerca, perché non mette in moto l’immaginazione, la creatività, la sua relazione con il mondo a partire dalle proprie risorse interiori. Se i genitori resistono il bambino dovrà trovare altro per occupare il suo “bisogno” e lenire il dolore, magari sarà un gioco inventato sul momento: un mazzo di chiavi che diventa un amuleto, un bastone che diventa una spada. I bambini che hanno tutto e hanno tutto il tempo pieno, che non si annoiano mai, sono atrofizzati nella loro creatività, riempita dall’esterno e mai sgorgante dall’interno. E lo stesso vale per i ragazzi rimpinzati di oggetti e tempi pieni. Quelli che non si annoiano mai, sono fregati: il loro processo creativo, cioè lo scavare e scovare le risorse dentro di sé e non fuori, per arginare il vuoto e il nulla, rimane bloccato.
“Lasciate che i bambini vengano a me”, indica la necessità di essere bambini per accedere a Dio. Solo il bambino che è in noi può accedere, perché suo è il regno dei cieli, cioè il luogo in cui la chiamata di Dio, con i talenti ricevuti, è evidente. Purtroppo poi gli uomini a cui è affidato il talento di altri possono rovinarlo, schiacciarlo, distruggerlo, standardizzarlo.
Il mio amico architetto mi spiegava che il suo non è altro che un modo di rapportarsi al mondo, di guardare le cose, maturato da quando era bambino e che lui non fa altro che applicare a tutto lo spazio circostante, con l’idea di metterlo in ordine e di renderlo funzionale per gli altri.
Il talento è cristallino nei bambini: basterebbe guardare un bambino per intercettarne a livello seminale e potenziale il talento che lo porterà ad occupare il suo posto nel mondo. E attenzione non sto parlando di posto di lavoro, ma di centro della propria esistenza che andrà coltivato indipendentemente dal lavoro che poi si riuscirà ad ottenere.
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(estratto da Prof2.0 "Com'e sta storia del talento?")
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