Perché nelle scuole
cattoliche gli studenti imparano meglio e di più che in quelle statali?
Il motivo è una passione diversa all’educazione dei giovani. Un interessante articolo apparso il 2 novembre 2018 su Il Sussidiario (qui l'articolo originale) a firma Giorgio Vittadini, fondatore e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ordinario di Statistica Metodologica presso
l'Università degli Studi di Milano Bicocca e direttore scientifico del
Consorzio Interuniversitario Scuola per l’Alta Formazione Nova
Universitas.
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Le scuole
private, nel nostro Paese gestite in origine per lo più da ordini
religiosi, sono viste, oltre che come il luogo dell’educazione elitaria,
anche come ambienti in cui ottenere un surplus di aiuto per i figli in
difficoltà, vuoi per carenze nell’apprendimento, vuoi per problemi
comportamentali. Luoghi insomma in cui oltre al rendimento scolastico si
può sperare in un’attenzione più globale ai ragazzi (se non per
convinzione, almeno come servizio aggiuntivo per una retta salata).
Tante famiglie hanno mandato i figli nelle scuole non statali per il
desiderio che fossero curati di più, perché fosse voluto loro anche più
bene.
Ora sappiamo che se
molte scuole private sono ai vertici per i risultati scolastici dei loro
studenti, lo si deve anche alla cura di quegli aspetti che sono sempre
stati considerati ai margini della didattica. Chi conosce questi
ambienti sa che non si tratta tanto della disciplina (per quanto
l’intento “moralizzatore” sia stato piuttosto diffuso). Ciò che molte
famiglie hanno obiettivamente trovato è uno sguardo verso i ragazzi che
tiene conto delle loro caratteristiche, della loro personalità, dei loro
desideri e aspirazioni.
Le
neuroscienze, e perfino le ricerche empiriche condotte da economisti,
stanno confermano in modo netto quanto il processo di apprendimento
dipenda in tanta parte da un “assetto” umano, cioè da caratteristiche di
personalità e che queste possono essere educate. Pensiamo a quanto la
memoria sia legata a meccanismi emotivi di piacere o, in negativo, di
dispiacere. È ormai dimostrato che la memoria di un contenuto appreso è
anche ricordo dell’emozione che è stata provata durante l’apprendimento
di quel contenuto. Un sentimento negativo, come paura di sbagliare,
senso di colpa o di inadeguatezza, porterà a difendersi anche dal
ricordo del contenuto. Da qui semplicemente viene l’esigenza di un
educatore non giudice ma alleato del ragazzo contro l’errore. In
sostanza, quello che è sempre più chiaro è che non c’è atto della vita
mentale che non sia nello stesso tempo comprensione ed emozione.
Oppure pensiamo ai lavori sui character skill di
molti studiosi, tra cui il premio Nobel per l’economia James Heckman,
che mostrano quanto elementi come estroversione, amicalità,
coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale (dimensioni che un
gruppo di ricerca italiano ha espresso con altre articolazioni, come
capitale psicologico, autoefficacia, motivazione) siano il fattore
determinante anche nell’acquisizione di conoscenze, oltre che per la
possibilità di non interrompere gli studi.
Se
si aggiunge poi il fatto che le innovazioni tecnologiche stanno
trasformando rapidamente anche il mondo del lavoro e che quindi sta
diventando sempre più decisiva la capacità di imparare più che le
conoscenze in sé, si capisce quanto il mondo della scuola sia chiamato a
una rivoluzione.
C’è un “nota
bene” che però non va trascurato. Quello che empiricamente è stato
compreso in tante esperienze didattiche (statali, paritarie, private),
acquisito attraverso le neuroscienze o, ancora, nella ricerca
socio-economica, disegna in modo netto una certa idea di essere umano
che non è inutile tenere come faro anche di una azione didattica. Quello
che emerge è la dinamica ultimamente positiva della natura umana, che
tende irriducibilmente a migliorarsi, a crescere, a cambiare; è la
fiducia nella capacità della ragione di conoscere la realtà, fiducia che
apre la ragione alla sua creatività e fa scoprire il suo essere in
relazione; un’esperienza di conoscenza non solo possibile, ma anche in
grado di rendere le persone più se stesse.
Per
questo, conoscere è imbattersi in qualcosa di nuovo, di reale, che si
scopre essere “per noi”. Conoscere fa sentire “più io” e ci cambia. Per
questo va fatto scoprire il lato attrattivo della conoscenza (quel
grande educatore che è stato Luigi Giussani diceva che la logica della
conoscenza è imparare da una simpatia ultima), che non è banalizzazione,
ma il gusto di sentirsi completare da ciò che si conosce. E per questo
va “spezzato il pane” del sapere perché sia digeribile da tutti gli
stomaci. Solo così l’esperienza della conoscenza può cambiarci, farci
progredire.
Una volta che
vengono affermate le linee culturali sottese alle scelte didattiche, in
realtà il lavoro a scuola è tutto da cominciare.
Sappiamo
quanto progresso umano ha portato nella storia un approccio positivo
alla consapevolezza della grandezza della nostra natura umana. Ma
sappiamo quanto c’è da fare perché questa antropologia positiva si
affermi e diventi utile anche in un cambiamento d’epoca come quello che
stiamo vivendo. Quanto ancora c’è da fare per dare ai ragazzi gli
strumenti per scoprire chi sono, che sono fatti per conoscere e così
crescere?
Come ci accorgiamo
se quello che insegniamo cambia i nostri studenti, in particolare la
loro capacità di ragionare, al di là di ciò che imparano? Ma poi: siamo
in grado di insegnare a ragionare? E a essere curiosi? Si può sostenere
la natura curiosa dei ragazzi? Quanto tempo dedichiamo all’ascolto delle
loro domande? Sappiamo spingerli a chiedere? Come motiviamo la fatica
di conoscere? Quale esperienza fanno i nostri studenti di questo “val la
pena”?
Assumere per buone
queste domande può lasciare intravvedere la rivoluzione che aspetta la
scuola nei prossimi decenni. A meno che non ci si voglia rassegnare,
come disse Helvetius che “gli esseri umani nascono ignoranti, non
stupidi: li rende tali l’educazione.
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