Il profossore e scrittore Alessandro D'Avenia, con l'avvio del nuovo anno scolastico, riprende la sua rubrica "Letti da rifare" sul "Corriere della Sera" ogni lunedi mattina. Il primo appuntamento di lunedi 4 settembre, che aveva come spunto quabto accaduto a Genova alla vigilia di Ferragosto, vale la pena leggerlo tutto.
Letti da rifare 24. Non crollano solo i ponti
È la prima
campanella dell’anno scolastico quella che suonerà tra poco: l’ennesima
promessa di un nuovo inizio, rintocco del desiderio umano che non smette
mai di sperare che una vita rinnovata e più piena possa sorgere dal
ripetitivo orizzonte quotidiano. Immagina, cara/o collega, di sederti al
posto di un tuo studente in questo primo giorno. Guardati entrare in
classe, osservati: dal portamento ai libri che hai con te. Che cosa
vedi? Perché sei lì? Per chi sei lì? Perché hai scelto chimica,
italiano, fisica, diritto… e hai scelto di raccontarli a una nuova
generazione? Rispondi a queste domande mentre ti vedi disporre gli
strumenti del mestiere sulla cattedra. Adesso ascoltati formulare
l’appello. Come pronunci i nomi dei tuoi studenti? Come guardi i loro
volti? E che cosa vedi sul tuo?
Forse nel tuo sguardo puoi scorgere
delusione e stanchezza, per un sistema che non valorizza la tua
personalità e la tua professionalità… Ma ricorda che i ragazzi saranno
lo specchio di ciò che trasmettono i tuoi occhi, perché lo sguardo umano
non è mai neutro ma contiene esattamente la vita che vuole dare o
togliere, così dal loro sguardo saprai sempre com’è il tuo. Desiderano
ciò che tu desideri: essere riconosciuti, valorizzati, supportati. Non
vedi, forse, la tua stessa carne? Perché non prendersene cura come
vorresti si facesse con te? Proprio perché loro non sanno ancora farsi
carico della vita, è a te, adulto, che chiedono di provarci, per poter
scoprire che maturare è un’avventura e non una colpa da espiare. Essere
adulti è questo: finita l’iniziazione alla vita, riuscire a portarne il
peso, come un padre solleva suo figlio perché colga i frutti sui rami a
cui neanche lui arriva. Se ti avvicini puoi scorgere sui loro volti i
segni della solitudine e della paura: la spavalderia, le provocazioni, i
silenzi, le maschere di questa età tradiscono il desiderio di avere un
nome, di abitare la vita. Non sono forse i segni della tua stessa
ricerca? Ma come far sì che la speranza sia sempre un passo avanti
rispetto alla paura? Da dove attingere la pazienza e la generosità per
farsi carico di queste vite? Un pensiero ti conforta: tu sai che sono la
cultura e le buone relazioni le risposte a questa ferita, alla
fragilità dell’io rispetto alla pienezza a cui aspira. La cultura
generosamente condivisa nella relazione educativa, la trasmissione del
vero, del bello, del buono, resistenti al tempo vorace, sono proprio ciò
che consente di dare peso e senso alla vita, la risposta umana al
nulla: «Ove tende questo vagar mio breve? E io che sono?», ti
interrogano con le parole di Leopardi. Ti chiedono di «soffrire» per
loro, e il verbo vuol dire sia «portare il peso» della vita sia «dare»
la vita: concepirli e generarli. Non respingerli nel buio, lasciali
venire alla luce, attraverso di te.
Ma c’è quella luce nei tuoi occhi? Come
sarà la tua prima lezione? Come nelle sinfonie la prima lezione è la
tonalità da cui dipende tutto l’anno: il tuo spartito svilupperà il tema
giorno per giorno e loro sono gli strumenti, tutti necessari,
dell’orchestra. Tu, maestro, sai che la musica non è tua, ti precede, ma
sei tu a interpretarla, realizzarla, darle forma, insieme a loro. Senza
loro agiti la bacchetta nel nulla. Avete bisogno l’uno degli altri,
solo così l’armonia accadrà. Lo so: è faticoso, i colleghi sono a volte
difficili, lo stipendio fa pena, le riunioni sono lunghe, le scartoffie
troppe, i genitori ingombranti. Puoi voltarti dall’altra parte e dire
che non sono affari tuoi. Invece lo sono. La tua eredità sono loro.
Ero a Genova quando è crollato il ponte. Il
silenzio che ha avvolto la città era infranto solo da ambulanze ed
elicotteri e, negli intervalli muti, si affollavano i «perché» con cui
la mente cerca di strappare un senso alle catastrofi. Siamo arrivati
tutti a una conclusione, purtroppo frequente nel nostro Paese: bisognava
pensarci prima. Anche la scuola è un ponte che, ogni giorno, trasporta
quasi 9 milioni di vite da un destino a una destinazione, dall’informe
alla forma pienamente umana della vita. Proprio tu sei chiamata/o alla
manutenzione ordinaria e straordinaria del ponte. Guardati entrare con
la tua cassetta degli attrezzi: alla tua professionalità sono affidate
le loro vite. Come avresti voluto ti si guardasse e che cosa avresti
voluto sentire? Non certo quello che disse una volta una docente,
fissando la nuova classe, il primo giorno del primo anno di superiori:
«Siete troppi, vi ridurremo». Il tu viene alla luce solo se l’io
dell’adulto lo concepisce e lo genera, e l’io non per questo si perde,
anzi è rigenerato come accade ai tessuti di una madre in dolce attesa.
Insegnare è una delle migliori cure contro l’invecchiamento che io
conosca.
Durante l’estate ho passato dei giorni
insieme a mia sorella che ha una bambina di pochi mesi. Era una gara a
intuire di cosa avesse bisogno e, chi dei familiari entrava nel raggio
di azione dello sguardo di Beatrice, era attratto dalla forza di gravità
della «cura». L’empatia, l’intuire di che cosa la vita in formazione ha
bisogno, è vitale per il bambino e per chi gli sta attorno: noi umani
non ci prendiamo cura dei piccoli perché li amiamo, ma li amiamo perché
ci prendiamo cura di loro. Curando, impariamo ad amare e conoscere, e
così maturiamo anche noi. Bambini e adolescenti vengono alla luce se
trovano educatori in grado di nutrire il loro bisogno di avere una
forma: formarsi. E lo chiedono a chi è già «formato», ma se costui non
se ne cura le vite crollano. Il docente, mediatore tra l’informe e le
forme di vita che racconta, a partire dalla sua, è chiamato alla cura,
per professione. Rifiuto la retorica che attribuisce al mio mestiere la
parola «missione», perché ascrive l’empatia, strumento professionale
necessario al riconoscimento della vita altrui come propria, all’ambito
di supereroi e mistici. Empatia non è sostituirsi agli alunni, ma
conoscerne e sostenerne battaglie, contraddizioni, domande, offrire
risposte adeguate se le abbiamo, o una presenza adeguata se non le
abbiamo. I ragazzi vogliono adulti veri: né amiconi nostalgici
dell’adolescenza né aridi erogatori di nozioni. La cultura non è una
sovrastruttura snob, ma il modo in cui la vita umana cerca il suo
compimento. Non basta informare, occorre formare: aiutare la vita a
compiersi e a dar frutto. Per farlo serve generosità, che ha la stessa
radice di generare. La relazione educativa o è generativa (amplia il
naturale desiderio di far esperienza della realtà) o è degenerativa
(chiude il desiderio, annoia, spegne il coraggio e la curiosità). La
generosità educativa è anch’essa professionalità e non volontariato. È
generoso chi genera, cioè afferma la vita dell’altro come necessaria e
si impegna, come può, al suo compimento, come i bastoncini con cui mia
nonna sosteneva le piantine incerte, perché crescessero verso la luce,
approfondendo così le loro buie radici. Non c’è compimento senza
concepimento, non c’è generazione senza generosità. E una generazione
non generata prima o poi crolla.
Qualche giorno fa mi ha scritto una ragazza
che sarebbe precipitata nel baratro di una malattia se una
professoressa non fosse stata «empatica» e «generosa», affrontandola a
tu per tu alla fine di una lezione. Mi ha chiesto di dar voce alle sue
parole: «Vorrei chiedere a tutti i professori di fermarsi, anche solo un
attimo, di alzare lo sguardo dal registro e guardare negli occhi i
ragazzi. Non limitatevi a segnare l’assenza, ma chiedetevi se veramente
gli studenti sono lì, chiedete l
oro
come stanno, dando peso alle risposte perché, spesso, noi ragazzi
diciamo che va tutto bene, anche quando stiamo morendo dentro. Il vostro
compito non è esclusivamente spiegare, interrogare e valutare. Voi
siete in grado di vedere più lontano dei genitori: a scuola proprio
perché ci si sente invisibili emergono le più piccole debolezze. Avete
idea di quanti ragazzi nuotino controcorrente senza scoprire le proprie
capacità? Quanti credono di essere inutili? Quanti concorrono per un
voto come fossero oggetti? Mi capita di pensare a come sarebbe andata a
finire se quel giorno la mia professoressa non mi avesse fermata e non
mi avesse guardata negli occhi. Forse oggi non sarei qui». Di norma non
si tratta di casi limite, ma di mostrare che ci si sente responsabili
della loro vita, magari con un sincero e sorridente «come
stai?»: portare il peso a volte è semplicemente «dare peso». Un
adolescente si decide a maturare se sente che un adulto vuole farsi
carico della sua vita, perché così scopre che è buona, e il suo coraggio
si attiva vincendo la paura, perché vede un altro impegnato per lui.
Ciò che ci aspettiamo da loro deve essere prima in noi: questo è
educare, e l’istruzione ne è solo una conseguenza. A noi chiedono di
impegnarci per un volto e, solo dopo, per un voto. Un anno scolastico in
cui non cresco in amore e conoscenza della materia e dei ragazzi, per
me è un anno perso.
Il letto da rifare oggi, il primo dell’anno
scolastico, è la manutenzione delle anime. Come noi insegnanti ci
aspettiamo che loro ascoltino noi, possiamo «ascoltare» i loro volti,
perché ascoltare un adolescente è capire ciò che non dice. Come i ponti,
anche le anime possono crollare per incuria.
Guardati. Che cosa vedi?
Guardali. Che cosa vedi?
Buon anno a tutti.
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