Immagine dal film: "I passi dell'amore (A walk to remember, 2002)" |
Questa settimana pubblichiamo l'intervento del prof. Alessandro D'Avenia, che dalle pagine della sua rubrica settimanale "Letti da Rifare" (Corriere della Sera) ha rilanciato il tema dell'educazione affettiva per gli adolescenti di oggi.
L'intervento originale è sul suo sito : www.profduepuntozero.it
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«Ho capito che considerare l’amore in un certo modo non era corretto,
sono riuscita a trarre conclusioni che non avrei saputo dove ‘pescare’ e
a mettere in ordine sentimenti contrastanti che gestivo in modo
sbagliato». Sono le parole di una diciottenne che aveva ultimato il
libro che ho dedicato alle storie d’amore di 36 donne, collegate da
quella che tutte le contiene: Orfeo ed Euridice. Avevo avvertito la
necessità di esplorare e rivivere narrativamente la domanda che tutto
muove: l’amore salva? Non avrei pensato che ne scaturisse un’educazione
sentimentale in forma di romanzo a racconti di generi diversi, l’amore
li usa tutti (da tragico a comico, da epico a lirico). Sull’ispirazione
hanno pesato considerevolmente le frequenti crisi e domande che, in tema
di relazioni, ricevo da ragazzi allo sbaraglio in un ambito della vita
in cui, stranamente, pensiamo non ci sia nulla da insegnare e imparare
(nessuno può fare una casa senza conoscere la fisica delle forze, invece
per fare casa in due chissenefrega della fisica delle relazioni). I
ragazzi sono lo specchio del mondo adulto e l’immagine «amorosa» che
rimandano è precisa: il divorzio tra testa e cuore genera amori senza
testa o senza cuore, cioè a dolorosa scadenza.
Un’evanescente educazione sentimentale, semplificata in sessuale
(ridotta sovente a paure e contromosse: come non metterla/rimanere
incinta e cosa fare se accade), lascia l’essenziale della vita in balia
dell’improvvisazione e del così fan tutti. Gli adolescenti, educati
dalla rete più che dai genitori, vivono l’amore come prestazione di un
io debole e bisognoso di valere qualcosa, a colpi di emozioni e di mi
piace. È la loro versione del precariato relazionale da app di incontri.
Amare è essere scelti come trofei da caccia o scegliere a partire dalla
consapevolezza di sé? Una preda attira predatori, invece libertà è
avere il coraggio di non piacere a tutti i costi e di stare soli («anche
solo sono completo»). Non siamo merci da bancone digitale, né
alcolizzati emotivi, ma persone desiderose di amare ed essere amate
stabilmente. Quando gli studenti dicono «non ho il ragazzo/a», ricordo
loro che non si possiede e non si è posseduti da nessuno. Amare è
scegliere l’altro, non possederlo, è «voler bene» all’altro non «voler
star bene» a spese dell’altro. Per questo preferisco il vintage «sono o
non sono fidanzato» all’orrendo «esco con qualcuno». Amare impegna tutta
la persona, testa e cuore, anima e corpo: richiede quindi il verbo
essere.
Le relazioni lasciate alla paura della solitudine e del non essere
«abbastanza» imboccano i due vicoli ciechi dell’itinerario amoroso
contemporaneo. Da un lato la seducente favola romantica, che fa
dell’altro un dio e immagina la vita di coppia come soddisfazione di
ogni bisogno: l’altro è il mio destino, il dio che mi salverà da ogni
vuoto e caduta. Ma l’amore non è sicurezza emotiva, bensì rischio,
esplorazione, perdita dei confini dell’io per creare la regione ignota
del noi. Dall’altro lato emerge la narrazione frutto del disinganno
della favola romantica evaporata a contatto con l’esperienza: l’amore
cinico. In questa versione l’amore è una serie di storie a scadenza, io
sono il dio da adorare e l’altro serve finché ne ho bisogno o non mi
stanco. L’illusione romantica e il calcolo cinico distillano un efficace
veleno per le relazioni: il «narcinismo», parola coniata dalla
psicanalista Colette Soler, per indicare la somma di narcisismo (l’altro
è usato come specchio per moltiplicare l’ego) e cinismo (l’altro è lo
schiavo a tempo dell’ego). L’amore non è più uscita e superamento di sé
che libera dal ripiegamento su se stessi, cioè dall’egoismo, causa di
ogni fallimento esistenziale. Si è vivi solo se si cresce in amore,
invece il narcinismo sottomette l’amore alla sola legge nota al gaio
nichilismo: il godimento individuale, finito il quale, nella versione
romantica si cercano nuove emozioni in fughe regressive o trasgressive,
nella versione cinica l’altro viene sostituito con chi può procurare
maggiore soddisfazione.
L’acclamato La la Land, seducente in canzoni e attori, è il
film del nar-cinismo relazionale, impasto perfetto di favola e cinismo.
Nessuno dei due protagonisti rinuncia a nulla, usa l’altro come doping
per la propria «prestazione esistenziale». Quello che resta nel finale è
la malinconia del «sarebbe stato bello se avessimo scelto noi», ma la
promessa di felicità del noi è solo un’ipotesi dell’irrealtà per l’ego.
Emblematico il dialogo nel parco dell’Osservatorio, dove i due,
all’inizio, avevano inaugurato il sogno romantico volando tra le stelle:
«Dove siamo noi due?», chiede lei riferendosi alla loro crisi, e lui:
«Nel parco». Ridono, ma la risposta è perfetta: c’è solo l’istante,
nessun progetto o scelta. Il dialogo continua tra un «tu devi mettere
tutta te stessa nel tuo sogno» e un «io devo andare avanti nel mio
piano». E il noi? Il noi non rientra nel sogno o nel piano. L’altro è
servito ora a dopare l’ego emotivo (mi fai stare bene), ora da ultrà per
quello carrieristico (fai il tifo per me). È il cortocircuito erotico
odierno: vogliamo essere innamorati e restare ego-riferiti. Ma amare è
essere noi-riferiti, paradossale scelta di spingere l’ego verso il
naufragio, come scriveva Kafka alla sua Milena: «tu mi sei la cosa più
cara, amore è che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me
stesso». È un coltello misericordioso: il noi libera il sé che,
sentendosi amato, abbassa le difese e si lascia sbucciar via l’ego che
ingabbia la felicità.
Il sogno romantico e il calcolo cinico si confermano nell’immaginario
dominante. Da un lato c’è il «Royal Wedding»: quello di Kate e William è
stato trasmesso per 2 miliardi di spettatori, per Harry e Meghan sono
giunti a Londra 4 milioni di turisti. La ragazza comune diventa
principessa, con tanto di castello: il modello Cenerentola, maggior
incasso cinema nel 1950, continua a sedurre. Dall’altro lato c’è il
modello Anastasia, protagonista della trilogia delle 50 Sfumature di
E.L.James, tra i libri più venduti di sempre, in cui un uomo affermato e
ricco, attratto da una giovane studentessa invaghita di lui, la mette
sotto contratto sessuale, senza che questo implichi una relazione
affettiva: solo prestazioni consensuali ed estreme. Anastasia accetta di
essere un oggetto a tempo determinato, una precaria erotica che spera
di cambiare e sposare un sadico, ripristinando così il finale delle
fiabe. Da questi due poli emerge il vero desiderio: una relazione
esclusiva ed estensiva («solo con te e per sempre»). Cenerentola e
Anastasia sono illusori estremi che si toccano indicando la via di mezzo
smarrita: l’amore che coniuga eros, sogno e quotidiano. Un amore fatto
del circolo virtuoso delle due forze relazionali che generano fedeltà a
prova di noia nel gioco delle anime e dei corpi: il dono e il bisogno.
Il bisogno di sentirsi amati si integra con lo scegliere il bene
dell’altro anche quando serve rinunciare a sé, senza che affermare la
felicità dell’altro sia annullamento di sé: a massima appartenenza
corrisponde massima libertà. Questo amore è il futuro anteriore umano,
ci precede come desiderio e ci spinge come promessa: lo vogliamo più di
tutto ma è tutto da realizzare, nel noi che ne offre la materia prima.
Solo quando dono e bisogno si equilibrano accade l’inatteso: il per
sempre diventa quotidiano, non è sogno irrealizzabile né incubo di
impegni e fatiche. L’amore apre le 24 ore, si nutre del tempo invece di
rimanerne vittima: diventa forte come la morte perché, al pari della
morte, ferma il tempo, non in funerea fissità ma in stabilità creativa.
Il noi supera l’io senza distruggerlo, anzi lo conferma, cioè lo rende
stabile, più compiuto e aperto al caos della vita. L’ho visto qualche
giorno fa, quando i miei genitori, allontanandosi da noi figli per
raggiungere la fermata dell’autobus, si sono presi per mano. Dopo 52
anni di matrimonio – gli acciacchi dell’età li costringono a rifare il
letto stando in ginocchio, come una preghiera — la loro fedeltà è la
cosa più trasgressiva che io conosca.
Nella chat familiare, mentre tutti usano l’emoticon tradizionale del
cuore, mio padre — essendo noi figli sparsi per il globo — usa il cuore
«wireless», un cuore con vibrazioni che ne indicano battito e
connessione a distanza. Il cuore è un organo cavo di fibre muscolari
involontarie: per questo è da sempre metafora amorosa. Le fibre, che si
contraggono senza il nostro consenso, dicono che siamo fatti, che lo
vogliamo o no, per amare; e il suo essere cavo conferma che l’amore è
ricevere tutto per poi tutto dare. L’infarto delle relazioni è lo
scompenso tra ricevere e dare, tra dono e bisogno. Il cuore «wireless»
non è statico ma stabile, non è immobile ma in continuo moto d’entrata e
uscita, bisogno e dono.
Il letto da rifare è riscoprire che l’amore si impara e si insegna,
non s’improvvisa, altrimenti il narcinismo avvelena le relazioni. Non
possiamo rinunciare all’educazione sentimentale dei ragazzi, ne va della
loro felicità, molto più di quanto dipenda dalla carriera. L’amore non è
il doping dell’ego, ma la vittoria sull’ego. Perché non cominciare
raccontando ai figli la propria storia d’amore? Se loro sono qui è
perché due hanno trovato il coraggio di promettersi: insieme saremo più
forti che soli, insieme proveremo a vincere la solitudine e il tempo.
Corriere della Sera, lunedì 18 giugno 2018