Il destinatario di questa
“lettera” incalzante e agguerrita è l’insegnante della scuola media, inferiore
e superiore: la scuola dell’adolescenza. E l’adolescenza, età difficoltosa
quant’altre mai, è sostanzialmente – lo conferma l’etimo – crescita, vale a dire
mutamento per salti e metamorfosi. E dunque compito primario della scuola è, in
un delicato passaggio che induce spaesamento e ricerca spasmodica di identità,
insegnare a vivere. È questo – possiamo affermare – il leitmotiv del libro, ciò
che detta all’autore accenti di rara intensità. Senza questo obiettivo la
scuola è solo un’istituzione assurda e crudele che produce effetti dannosi, e
talora perfino catastrofici. Una scuola immotivata che non susciti interessi
conoscitivi e non accenda emozioni, e sia anzi iniqua e ingiusta, piatta e
noiosa, cinica e beffarda, può anche… uccidere. E non solo per metafora.
Lettera a un insegnante, Vittorino Andreoli
E ora ti voglio parlare in questa
mia lettera delle doti che fanno di te un buon insegnante e delle strategie
perché tu possa espletare il tuo compito pienamente.
Credo che la prima qualità sia
l'autorevolezza. Viene percepita come caratteristica della persona ed è certo
l'insieme di molti elementi. L'autorevolezza dà credibilità: ti rende punto di
riferimento e le tue affermazioni assumono il significato di «verità».
I tuoi allievi se ne accorgono e
ne sono certi: di fronte a un mondo di menzogne, improvvisazioni, maschere per
«apparire», vedono in te la serietà. L'autorevolezza diventa sicurezza. Non è
riducibile a quanto si sa sulla materia, ma fa riferimento a una personalità
che si presenta convinta e convincente, coerente, capace di svolgere il proprio
ruolo e di manifestarlo anche nel silenzio, con la sola presenza. E persino
nell'assenza, poiché l'insegnante viene introiettato2 e c'è anche quando non
c'è e si può giungere a una presenza che dura una vita.
L'autorevolezza non è mai
autoritarismo, che si veste della violenza e della minaccia del potere.
La qualità che segue subito dopo
è la partecipazione alla scuola. Una presenza attiva, animata dalla voglia di
dare, di fare sempre meglio senza mai chiudersi in una recita fredda, seguendo
uno stanco copione che si ripete da anni. La si misura con il desiderio di
andare a scuola, di entrare nell'aula o all'opposto con la paura persino di salire
sulla cattedra.
La partecipazione è condizionata
dal modo di pensare, dallo sforzo di percepire e far percepire qualsiasi
argomento in maniera accattivante, interessante e aggiornata, dunque in una
versione sempre nuova poiché nulla nelle discipline insegnate rimane immutato e
l'insegnante deve coglierne le novità. Ma c'è una partecipazione che riguarda
l'affettività3 e che esprime la voglia di trasmettere quello che uno sa e che
ha raggiunto in tanti anni di approfondimenti.
Un sapere che si coniuga con la
passione o almeno con il piacere.
Il piacere di insegnare, ecco un
altro punto su cui interrogarsi: riesci a dare un senso alla tua vita proprio
per il tuo ruolo, per il fatto di proporti ai tuoi allievi come insegnante e
con un sapere specifico che però trasmette al tempo stesso la gioia di quella
scelta? Oppure hai quell'aria assente che ti porta faticosamente a compiere un
dovere che è però scialbo e senza piacere? Come fossi diventato frigido o
frigida, come se ormai il piacere dei sensi fosse pura illusione o ricordo di
momenti meno sfortunati. Sei un rassegnato?
Nessun lavoro, senza il gusto di
compierlo, può risultare gratificante e dunque efficace. Vale quindi il
principio che il piacere con cui svolgi il tuo ruolo di insegnante è
proporzionato alla sua efficacia e quindi al gradimento della classe che lo
dimostrerà stando attenta e appassionandosi alla tua materia poiché vi sente
dentro la tua personalità. Altrimenti il tuo competitore diventerà il computer4
che è disanimato, mentre tu l'anima ce l'hai: è la caratteristica che
differenzierà sempre l'uomo dalle macchine.
Una qualità importante si lega
alla tecnica della comunicazione e quindi all'efficacia del messaggio che la
lezione trasmette. Il tuo racconto, la tua lezione devono avere la forza di una
favola per un bambino che, ascoltandola, la partecipa, entra nel personaggio,
anzi alternativamente in tutti e cosí non solo capisce la struttura della
fiaba, ma anche le sue parti e le vive e, se le vive, riesce a farle proprie,
ad apprendere. Non devi poi dimenticare che ogni ruolo ha una propria liturgia
che va mantenuta e non è concesso a un insegnante diventare amico dei suoi
allievi o esercitare un'azione di volontariato. Il tuo ruolo è sacro e non
intendo assolutamente parlare di missione, che non c'entra nulla, ma mi
riferisco alla sacralità come svolgimento di una cerimonia che è certo fondata
su un sapere razionale, ma anche su qualche cosa di strano, di fascinoso,
persino di misterioso, poiché il mistero rimane dentro il pensiero umano. Tu
non sei il padre dei tuoi allievi, non l'amico, non lo psicologo che assiste ai
drammi della crescita. Sei un uomo o una donna con l'incarico di allevare un
gruppo di persone, di fare il direttore d'orchestra e devi indossare, anche
materialmente, un abito che sappia di cerimonia, che si adegui alla tua parte.
Questa società ha creduto di
demolire ogni formalità e non si è accorta che non cancellava semplici
decorazioni bensí la sacralità della vita. E la scuola non può essere
banalizzata come se fosse un luogo di intrattenimento per giovani, un pub o un
club di amici.
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