"Quando abbiamo iniziato a mettere in discussione l’autorità dei docenti, a partire dai compiti assegnati a casa? Perché le chat di classe su WhatsApp, che dovrebbero essere luogo di confronto e partecipazione, diventano sempre più spesso pretesto per critiche aggressive?
Ma soprattutto: quand’è che ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le vite dei nostri figli, che fare il loro bene significasse impedire a chiunque di metterli in crisi, dimenticando che la crisi è uno strumento di crescita indispensabile?”
Se lo chiede, intervistato da ilLibraio.it, (qui l'intervista completa: www.illibraio.it) Matteo Bussola, in libreria con "Sono puri i loro sogni - Lettera a noi genitori sulla scuola".
Secondo l'autore "stiamo crescendo generazioni di bambini che sono sempre più dipendenti da noi. E le dipendenze sono sempre un problema”
Negli ultimi anni il mondo della scuola è stato messo a dura prova, non solo dai tanti cambiamenti avvenuti per le tante riforme e dalle richieste sempre più grandi di competenze tecnologiche, ma anche per il rapporto spesso teso e di sfiducia tra genitori e insegnanti.
Pur appartenendo alla categoria dei genitori a cui rivolge la sua lettera aperta, è anche figlio e genero di due insegnanti. Pensa che questa doppia dimensione abbia mosso il suo desiderio di scrivere questo libro?
“No, credo di no. Ma va detto che l’esperienza scolastica di mia madre mi è stata certamente utile, anche perché ha insegnato negli stessi anni in cui io sono stato studente io, offrendomi il suo punto di vista. Questo libro in realtà è nato da un articolo scritto per Robinson, l’inserto domenicale di Repubblica al quale collaboro, a sua volta il pezzo era stato innescato da un messaggio ricevuto su Facebook da un’amica maestra di scuola primaria, che mi ha raccontato amareggiata un episodio”.
Quale?
“Durante una lezione ha ripreso con fermezza un suo alunno per un episodio di bullismo, e per questo motivo ha subito pesanti conseguenze. La ragione è che il bambino è tornato a casa e ha raccontato ai genitori di essere stato picchiato dalla maestra. I genitori, senza voler ascoltare alcuna spiegazione, si sono rivolti al dirigente scolastico chiedendo pesanti sanzioni, il preside intimorito dalla furia genitoriale ha preso immediati provvedimenti. Nessuno ha messo in discussione la versione del bambino, nessuno ha creduto a quella dell’insegnante. Una settimana dopo l’alunno ha rivelato di essersi inventato tutto, nonostante questo i provvedimenti sono rimasti attivi, e la docente non ha ricevuto alcuna scusa dai genitori. Ora, una singola testimonianza non ha valore di campione statistico, ma va detto che quando mi è stata riportata non sono rimasto sorpreso, perché storie come questa sono sempre più frequenti, anche fra i casi di cronaca più recenti. Fa riflettere il fatto che, anche solo vent’anni fa, una cosa del genere non sarebbe mai successa, e di certo non sarebbe mai successa ai tempi miei o di mia madre: una volta rimproverato dall’insegnante, a casa il bambino si sarebbe sentito dire il resto dai genitori, e sarebbe finita lì”.
Dunque è partito da questo episodio reale.
“Partendo da questo parallelismo, e attorno a queste due polarità, ho cominciato a mettere a fuoco alcune riflessioni e osservazioni frutto dei miei dieci anni di esperienza scolastica come padre di tre figlie in età scolare e, soprattutto, una serie di domande, che in quanto genitore rivolgevo anche a me stesso – ecco perché Lettera a noi genitori“.
Quali domande?
“Quand’è che siamo diventati così? Quando abbiamo cominciato a pensare alla scuola come all’erogazione di un servizio, nel quale il cliente deve avere sempre ragione? Quando abbiamo iniziato a mettere in discussione l’autorità dei docenti, a partire dai compiti assegnati a casa? Perché le chat di classe su WhatsApp, che dovrebbero essere luogo di confronto e partecipazione, diventano sempre più spesso pretesto per critiche aggressive? Ma soprattutto: quand’è che ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le vite dei nostri figli, che fare il loro bene significasse impedire a chiunque di metterli in crisi, dimenticando che la crisi è uno strumento di crescita indispensabile?”.
Quali sono i rischi di questa sfiducia sempre più accesa nei confronti della scuola da parte dei genitori?
“Il rischio più grande è che alla scuola, più che educazione e istruzione, chiediamo esclusive garanzie di sicurezza: i bambini non devono sentirsi a disagio, non devono avere problemi con i compagni, non possono ricevere punizioni nemmeno quando le meritano, non devono essere bocciati e sui brutti voti, in caso, interverremo noi genitori protestando con i docenti. Naturalmente, ci sono anche molti genitori rispettosi e assennati, ma la tendenza che rilevo è in continuo e preoccupante aumento. In psicologia vengono chiamati ‘genitori spazzaneve’, ovvero quei padri e quelle madri che si ostinano a rimuovere dalla strada dei figli qualunque tipo di ostacolo. È forse anche per questo che i bambini di oggi presentano sempre maggiori difficoltà a gestire qualunque forma di stress. La vecchia scuola, pur con tutti i suoi limiti e i suoi metodi a volte anche discutibili, otteneva comunque l’importante risultato di aiutarci a sviluppare la nostra autonomia. Oggi, invece, stiamo crescendo generazioni di bambini che sono sempre più dipendenti da noi. E le dipendenze sono sempre un problema”.
Osservando quel che accade a scuola nelle classi delle sue tre figlie, pensa che la “buona scuola” stia aiutando a superare questi anni di profonde incomprensioni e diffidenza nei confronti dell’istituzione scolastica?
“Non saprei. Credo che non ci sia ‘buona scuola’ che tenga se non ci decideremo, prima di tutto, ad assumerci le nostre responsabilità. In questo senso ci tengo a dire che l’intento di Sono puri i loro sogni non è e non è mai stato quello di attribuire le ‘colpe’ di questo sistema di cose solo a noi genitori, santificando gli insegnanti. Anche gli insegnanti hanno, indubbiamente, la loro parte di responsabilità. Ma penso che noi genitori dobbiamo partire occupandoci della nostra, di parte. Credo che per disinnescare ogni conflitto sia sempre meglio partire da sé stessi, interrogarsi su quello che noi possiamo fare per primi, invece che continuare a puntare il dito verso l’altro. Ogni relazione è composta da due elementi, perciò mutando il comportamento di uno, anche di poco, tutta la relazione evolve. Credo che questo semplice cambio di atteggiamento possa essere più produttivo di tutto il resto”.
Nel suo libro non punta mai il dito, né contro i genitori né contro la scuola, che si è modificata un po’ come richiedeva la società. Ma è anche vero, come lei sostiene, che i genitori hanno lasciato fare. Se si potesse realizzare un miglioramento con uno schiocco di dita, da genitore come immagina la scuola ideale per gli studenti di oggi?
“Basterebbe ricordare, e applicare, una parola magica: rispetto. Rispetto per i nostri figli che hanno il diritto di vivere le loro vite e fare i loro errori senza le nostre paure a far loro ombra, rispetto per il ruolo degli insegnanti che hanno il diritto di poter svolgere il loro compito senza ingerenze. Rispettando il loro ruolo, tra l’altro, rafforzeremmo anche il nostro, perché ci dimostreremmo così utili alleati e non avversari, ricevendo il rispetto che a nostra volta chiediamo agli insegnanti. Soprattutto: dovremmo ricordare che il nostro compito di genitori, anziché tenere i figli costantemente al riparo, dovrebbe essere quello di mostrare che la vita non è sempre una linea retta che collega volontà e obiettivi, ma può essere una linea curva che congiunge impegno e capacità di adattamento, anche alle difficoltà. Che gli incidenti fanno parte del tragitto. Perché, quando le cose accadono, se ne fregano se tu le volevi o no, loro accadono e basta, e sono proprio le deviazioni o gli imprevisti, i fallimenti perfino, a servirci di più. Ci spingono a impegnarci, sono la benzina che ci fa muovere e ci sono utili per capire che io non sono l’obiettivo che mi pongo, né il desiderio che lo ha generato, ma sono soprattutto il percorso che faccio per arrivarci e la maniera in cui affronto quel che incontro lungo la strada. Randy Pausch diceva che «l’esperienza è quella cosa che ti rimane quando le cose non sono andate come volevi». Io la penso come lui, e credo che imparare a costruire la propria esperienza, senza l’ossessiva paura dell’errore che trasmettiamo ai bambini, sia la sola cosa di cui i bambini hanno davvero bisogno”.
Si sta discutendo molto sulla possibilità di tenere aperte le scuole anche d’estate, tema che tocca anche nel suo libro. Come si pone rispetto a questa esigenza manifestata da tanti genitori?
“Il tema è assai delicato. Io mi limito a dire, da genitore, che una riforma seria della scuola che comprenda un minimo di organizzazione dei tre mesi estivi e una ridistribuzione di attività scolastiche, ludiche, compiti, programmi e orari, gestiti sia ben chiaro dagli stessi insegnanti, sia ormai opportuna. Non si tratta di ridurre la scuola a un parcheggio o i docenti al ruolo di sorveglianti per i figli durante i mesi estivi, come qualcuno ha detto, ma di rendersi conto che abbiamo a che fare con un’organizzazione scolastica che funziona in maniera anacronistica rispetto alle esigenze di tutti, comprese quelle degli stessi insegnanti che lamentano croniche carenze di tempo per completare i programmi ministeriali. Perciò ben vengano gli aumenti di stipendio ai professori e ogni incentivo possibile, ma una scuola strutturata nella maniera attuale, che chiede giustamente ai genitori durante l’anno partecipazione e sforzi per seguire i figli nei compiti e in tutte le attività, e poi li lascia per tre mesi al pascolo, non è più sostenibile”.Il luogo pubblico, scuola compresa, è qualcosa di cui dovremmo prenderci cura tutti, come suggerisce con alcuni esempi lampanti nel libro.
Da dove cominciare?
“Cambiando paradigma, dunque mentalità. Il problema è che nel nostro Paese il concetto di ‘pubblico’, anziché rimandare a ‘cosa di tutti’, dunque da rispettare, troppe volte rimanda a ‘cosa di nessuno’. Siamo abituati a questa visione qui. Il luogo pubblico non è una cosa della quale prendersi cura insieme, da tenere pulita, verificando che funzioni, ma è solo un posto in cui buttare le cartacce a terra ‘perché tanto pago le tasse’ o in cui portare a cagare il cane di nascosto ‘perché tanto lo fanno tutti’, o nel quale abbandonare l’auto con le quattro frecce sul posteggio dei disabili per andare al bar a lamentarsi delle buche sotto casa, del vicino che piazza sempre la macchina davanti al nostro passo carrabile, o del fatto che ho appena pestato la cacca del cane di un altro, quell’incivile. L’atteggiamento cambia, radicalmente, ogni volta che il ‘pubblico’ incontra un nostro interesse privato. Allora il pubblico diventa, d’un tratto, nostro. Ecco, per cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della scuola, basterebbe riflettere sul fatto che la scuola ha a che fare con ciò che di più “nostro” esiste in assoluto: i figli. Per questo l’interesse di tutti dovrebbe essere quello di contribuire a farla funzionare meglio, perché la scuola accoglie il loro presente, ma è il generatore del loro futuro”.“Educare”, dal latino educere, significa “trarre fuori, allevare”.
Oggi pensa che i genitori, per fingersi amici dei figli, demandino troppo spesso e interamente questo compito agli insegnanti?
“No. Penso che il problema sia che noi genitori siamo spesso confusi. Vogliamo delegare educazione e istruzione ma al contempo non sappiamo se lo vogliamo davvero. Vogliamo vedere, vigilare, farci sentire. La nostra costante presenza, che troppo spesso sfocia in invadenza o, peggio, ingombranza, è il risultato di una genitorialità che interpreta troppo spesso l’amore come un mettersi davanti, nel tentativo di proteggere ciò che abbiamo di più prezioso. Il problema è che così facendo stiamo impedendo ai nostri figli di diventare adulti”.
Quali parole rivolgerebbe a un bambino che pone la fatidica domanda: perché devo andare a scuola?
“Le rispondo come ho risposto a mia figlia Ginevra, che mi ha rivolto la stessa domanda qualche anno fa: ‘Perché andare a scuola è il lavoro dei bambini’”.
E, per finire, cosa consiglia ai genitori che, come lei, si trovano a vivere la scuola mediata dai racconti dei propri figli e dalle chat dei genitori su Whatsapp?
“Di ricominciare a parlarsi”.
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