Rilanciamo un estratto dall'interessante articolo del prof. Ernesto Gali della Loggia pubblicato su Corriere della Sera il 15 gennaio 2017
L’abbandono della scuola al tempo dell’abdicazione della politica
Dagli anni Ottanta i
poteri dei ministri sono passati agli esperti, cancellando nei programmi ogni
valenza formativa. E, per gli alunni, l’insegnamento ora è insignificante (di Ernesto
Galli della Loggia)
Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in
Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa
dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero
credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso
dall’inizio, riandare alla storia. La scuola che noi conosciamo, la scuola
pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a
tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto)
non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una
decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la
formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in
particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle
rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima
persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione. Allo
scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere
(c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i
cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo
spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per
tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della
futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a
inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano
rappresentare.
Radici classiche
Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con
fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo
di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra
scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora
oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di
tutti i gradi dell’istruzione. È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un
bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante,
credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia
otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul
medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza
dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe
dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos
dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice.
Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo
e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a
raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista
strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.
Chi decideva gli ordini
di studio
Tutto ciò, ripeto — dalla nascita dello Stato italiano fino
a un dipresso al 1960 — è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della
politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di
decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per
l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per
potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi
requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto
l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno
pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età
liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro
che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza
elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.
Investimento
collettivo
È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni
Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione
di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese
della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un
lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico
che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e
profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni
scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato
dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla
«selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla
di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di
essere «libera» e di «contare». Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di
massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di
ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte
migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di
gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei
tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla
situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono
in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la
scuola italiana: il sindacato.
(…….)
Vacuo cosmopolitismo
A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione
della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo
alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti»,
assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie
scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In
realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano
nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione
connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a
un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale». Così come è stata
cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o
spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto
dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a
formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione
velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola
italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in
direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha
costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha
cambiato realmente nulla. Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica»
apposto al sostantivo «istruzione» — che fino a qualche tempo fa, ma ora non
più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per
l’appunto a quell’ambito — si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del
congedo della politica dall’istruzione stessa.
Dimensione a a
dimensione tecnico-operativa
È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi
della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi
scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di
qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento
centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo — si può
immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere
perseguito — di fare di essa la matrice del carattere e della personalità. La
scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai
suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di
guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha
accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente
tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura.
Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente
con un computer. Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la
politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il
vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di
vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra
uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la
terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci
riesce nemmeno al terzo tentativo.
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