Riproponiamo qui un estratto dalla rubrica "Letti da Rifare" che, ogni lunedì Alessandro D'Avenia, insegnate e scrittore, tiene su "Il Corriere della Sera".
L'intero articolo è leggibile qui:
_______________________________
Oggi educhiamo, spesso inconsapevolmente, a
questo individualismo insoddisfatto. Vedo bambini spinti a correre
l’uno contro l’altro, a con-correre, anziché stare nel gioco della vita
in squadra. Vengono caricati di ansia per i compiti e di una
competitività eccessiva nelle attività extrascolastiche, in cui a
trionfare sono i genitori più che i figli, usati come trofei. I
crescenti disturbi di attenzione mi sembrano ribellioni alla morsa del
risultato: per essere felice «devi funzionare». Lo stesso accade a molti
adolescenti che, nell’età della scoperta della propria unicità da
portare nel mondo, rivolgono la loro energia, privata delle radici
dell’accettarsi così come si è, contro se stessi: il suicidio è la
seconda causa di morte sotto i 20 anni e preoccupa la crescita
esponenziale di disturbi psichici, oltre al consumo di alcool e
sostanze, non da ultima l’eroina, divenuta accessibile ai giovanissimi
nella versione «gialla», facilmente reperibile a poco prezzo. La logica
del risultato come senso ha un esito tragico sulle vite, o si lotta fino
a sfinirsi o ci si ritira, già sfiniti, come scrive Houellebecq: «La
morte finisce per imporsi, il processo di disfacimento è più rapido per
quelli che non hanno mai fatto parte del mondo, non hanno mai ipotizzato
di vivere, né di amare, né di essere amati; quelli che hanno sempre
saputo che la vita non era alla loro portata».
La causa è nella rinuncia alla persona in
favore dell’individuo, alle relazioni costitutive dell’io a favore della
sua auto-promozione. A scuola siamo più preoccupati di finanziare
l’introduzione di test standardizzati che far fiorire l’unicità dei
ragazzi. In politica il consenso elettorale prevale sull’azione
effettiva per facilitare la vita e l’iniziativa dei cittadini.
Nell’informazione si distorce la verità per manipolare l’opinione
pubblica e ottenere click. Ossessionati in tutto dai risultati sentiamo
un angoscioso e ingiustificato senso di inadeguatezza alla vita. Eppure
tutti speravamo nella salvezza del piccolo Julen caduto nel pozzo: 300
operai hanno rimosso per 13 giorni di seguito 100 mila tonnellate di
terra, perché una sola vita merita ogni sforzo. Nelle situazioni limite
emerge il fatto che siamo convinti che la vita è nella cura della
persona: Julen è diventato figlio di tutti e nessuno ha pensato che
quell’impegno fosse un inutile spreco di risorse. Il diamante non ha la
stessa origine del carbone? Ma proprio il tempo e le condizioni attorno
hanno permesso di trasformare in bellezza la stessa base materiale. La
vita acquista energia e raggiunge la sua bellezza grazie alle relazioni
in cui è immersa nel tempo. Solo una cultura della persona, a correttivo
di quella del risultato, può liberare e compiere la vita.
Il cristianesimo, ridotto oggi a pratica
esangue o sentimentalismo privato, aveva donato qualcosa di
assolutamente nuovo e vitale al mondo antico: la persona. Cristo è il
Figlio del Padre, la sua identità divina non è individuale ma
relazionale, è un figlio, cioè il suo modo di essere Dio e uomo è essere
figlio: la condizione umana trova pienezza e compimento nel ricevere la
vita, non nel «procurarsela», nell’accoglierla, non nel «produrla». Un
figlio amato non ha paura di vivere, anche quando è debole, fallisce,
cade, perché riceve tutto dal padre che dà la vita: «Sono venuto perché
abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» dice infatti Cristo.
L’individuo invece ha paura, perché è un orfano, solo contro tutti deve
lottare per essere accettato e potersi poi accettare. L’individuo deve
generarsi da solo, la persona è generata dalle relazioni. Ma gli
individui non esistono, esistono figli perché in relazione con genitori;
esistono amici perché in relazione con amici; esistono mariti e mogli
perché in relazione con il coniuge; esistono discenti perché in
relazione con docenti… L’io, grazie alle relazioni sane, è donato al
mondo e a se stesso, non deve auto-promuoversi né meritarsi di vivere, è
già «abbastanza»: quindi dalla qualità di queste relazioni nel tempo
dipende il suo fiorire. Se però esse sono improntate solo al risultato
l’io si sente sempre in-adeguato e in-soddisfatto, perché è voluto
(bene) solo se all’altezza, il tu non è accolto così com’è, ma solo così
come deve essere, secondo certe aspettative e certi standard. Invece la
persona è già all’altezza, e per questo, nel singolo compito, può
riuscire o fallire, senza paura che venga meno la sua esistenza e
consistenza. La persona non si deve «realizzare», è già «reale» anche se
incompiuta, e la sua incompiutezza non è una colpa, ma una energia
interna attivata dalle relazioni, per diventare «più» reali. Grazie
all’amore la persona riceve se stessa in «dono» ed è rinnovata nel
«per-dono», il suo essere riposa nell’amore, invece l’individuo deve
porre e imporre se stesso, non riposa mai.
Dobbiamo invertire, in famiglia e a scuola,
la priorità della prestazione sulla presenza, ristabilendo il primato
di quest’ultima. Vedo genitori, soprattutto mamme, angosciati
dall’iscrizione alla prima elementare più di quanto si preoccupino di
curare l’armonia tra intelligenza e affettività dei propri bambini. Si
punta tutto sulle competenze, dimenticando che la persona è armonia
sinfonica delle componenti vitali: spirito, intelligenza, volontà,
corpo. Le domande dopo scuola (se non durante con messaggi invasivi)
sono: com’è andata? Sei stato interrogato? Che voto hai preso? Che
compiti devi fare? Nel parlare dei figli chiedono se sono bravi, non se
sono felici, che cosa fanno, non chi sono. Il risultato è tutto. I
figli, non riuscendo a sostenere la pressione, implodono o esplodono, o
comunque interiorizzano che «essere non è esserci, ma riuscire».
Basterebbe cominciare a sostituire le domande di prima: come stai? Avete
giocato? Che cosa avete scoperto di bello? Con chi hai fatto amicizia?
Come sta la maestra? Curando la persona inseriamo i bambini in una
miniera di relazioni sane che pian piano faranno il diamante. Il
principio personale mette l’io al centro di relazioni che conferiscono
identità e si occupa di curarle, mentre quello del risultato spinge a
soddisfare gli obiettivi. Gli adolescenti, loro malgrado, finiscono con
il mettere in atto proprio l’individualismo a cui sono stati
indirizzati, abbiamo detto loro per anni: funziona, concorri,
realizzati… anziché ti voglio bene così come sei, vai bene anche quando
non funzioni, pensando che dire queste cose fosse pericoloso per la loro
«realizzazione» e inadeguato per un mondo in cui merita di vivere solo
il più adatto.
Nessun commento:
Posta un commento