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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

sabato 23 febbraio 2019

Daniela Lucangeli, l’importanza di insegnare con gioia


Daniela Lucangeli è psicologa, professoressa universitaria ed esperta di disturbi dell'apprendimento,  nonchè star dei social: è seguitissima per la sua idea rivoluzionaria di insegnamento basata sulle emozioni positive. Già in passato abbiamo pubblicato articoli che la riguradavano; oggi pubblichiamo una parte di un'intervista molto interessante che è possibile leggere integralmente sul sito www.donnamoderna.com "intervista a Daniela Lucangeli"

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«Ho incontrato insegnanti immensi, ma la scuola oggi è in una bolla. Non c’è corrispondenza tra ciò che dice e ciò che fa. Chiede l’accomodamento dei bambini a se stessa, ai programmi, alle burocrazie. Invece vorrei che si accomodasse ai bisogni degli alunni. Vorrei che laddove ce n’è uno che fa fatica, ci fosse un insegnante che lo aiuta, non che lo giudica». 

Insomma, Prof, vuole la rivoluzione? «Letteralmente: voce del verbo rivolgere. Prendi un calzino e giralo dall’altra parte».

Daniela Lucangeli ha sperimento la rivoluzione su di sé. «A 18 anni ho vinto il concorso per insegnare alle elementari. Il primo giorno in cattedra mi sono trovata davanti 4 alunni con handicap mentale, residuo di una scuola speciale. Sono scappata, loro dietro di me e la bidella dietro di noi». Da allora, ha cambiato molti punti di vista per non fuggire di fronte ai bambini in difficoltà. «Mi sono laureata in Filosofia pensando che la logica aiutasse la mente a organizzarsi. Ma non è così. Poi in Psicologia, ma non è bastato. Allora ho preso un dottorato di Neuroscienze dello sviluppo che ha cambiato completamente il mio approccio. Ho capito che il grande decisore non è la ragione ma la parte emotiva. È l’area più antica del cervello che determina l’apertura o la chiusura agli stimoli».

Convinta che non puoi insegnare ciò di cui non fai esperienza, la Prof. Lucangeli usa le “carezze educative” per aiutare i bambini ma anche per formare i grandi. «La stima che ho di me oggi dipende da quanta autenticità riesco a trasmettere. Ho imparato a non controllarmi troppo quando parlo».

Sarà per questo che la voce ancora le trema in pubblico. Le chiedo se, in realtà, non sia una persona timida. Risponde per la prima volta senza sorridermi: «Io sono quel tipo di persona che se la lasci in biblioteca a studiare è felice».

Invece la lascio ai suoi docenti-ammiratori. Vogliono portarsi a casa un selfie con la Prof. E, si spera, una scintilla della sua rivoluzione.

venerdì 15 febbraio 2019

Alessandro D'Avenia: Educare alla relazione e non all'individualismo

Riproponiamo qui un estratto dalla rubrica "Letti da Rifare" che, ogni lunedì Alessandro D'Avenia, insegnate e scrittore, tiene su "Il Corriere della Sera".

L'intero articolo è leggibile qui:

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Oggi educhiamo, spesso inconsapevolmente, a questo individualismo insoddisfatto. Vedo bambini spinti a correre l’uno contro l’altro, a con-correre, anziché stare nel gioco della vita in squadra. Vengono caricati di ansia per i compiti e di una competitività eccessiva nelle attività extrascolastiche, in cui a trionfare sono i genitori più che i figli, usati come trofei. I crescenti disturbi di attenzione mi sembrano ribellioni alla morsa del risultato: per essere felice «devi funzionare». Lo stesso accade a molti adolescenti che, nell’età della scoperta della propria unicità da portare nel mondo, rivolgono la loro energia, privata delle radici dell’accettarsi così come si è, contro se stessi: il suicidio è la seconda causa di morte sotto i 20 anni e preoccupa la crescita esponenziale di disturbi psichici, oltre al consumo di alcool e sostanze, non da ultima l’eroina, divenuta accessibile ai giovanissimi nella versione «gialla», facilmente reperibile a poco prezzo. La logica del risultato come senso ha un esito tragico sulle vite, o si lotta fino a sfinirsi o ci si ritira, già sfiniti, come scrive Houellebecq: «La morte finisce per imporsi, il processo di disfacimento è più rapido per quelli che non hanno mai fatto parte del mondo, non hanno mai ipotizzato di vivere, né di amare, né di essere amati; quelli che hanno sempre saputo che la vita non era alla loro portata».

La causa è nella rinuncia alla persona in favore dell’individuo, alle relazioni costitutive dell’io a favore della sua auto-promozione. A scuola siamo più preoccupati di finanziare l’introduzione di test standardizzati che far fiorire l’unicità dei ragazzi. In politica il consenso elettorale prevale sull’azione effettiva per facilitare la vita e l’iniziativa dei cittadini. Nell’informazione si distorce la verità per manipolare l’opinione pubblica e ottenere click. Ossessionati in tutto dai risultati sentiamo un angoscioso e ingiustificato senso di inadeguatezza alla vita. Eppure tutti speravamo nella salvezza del piccolo Julen caduto nel pozzo: 300 operai hanno rimosso per 13 giorni di seguito 100 mila tonnellate di terra, perché una sola vita merita ogni sforzo. Nelle situazioni limite emerge il fatto che siamo convinti che la vita è nella cura della persona: Julen è diventato figlio di tutti e nessuno ha pensato che quell’impegno fosse un inutile spreco di risorse. Il diamante non ha la stessa origine del carbone? Ma proprio il tempo e le condizioni attorno hanno permesso di trasformare in bellezza la stessa base materiale. La vita acquista energia e raggiunge la sua bellezza grazie alle relazioni in cui è immersa nel tempo. Solo una cultura della persona, a correttivo di quella del risultato, può liberare e compiere la vita.

Il cristianesimo, ridotto oggi a pratica esangue o sentimentalismo privato, aveva donato qualcosa di assolutamente nuovo e vitale al mondo antico: la persona. Cristo è il Figlio del Padre, la sua identità divina non è individuale ma relazionale, è un figlio, cioè il suo modo di essere Dio e uomo è essere figlio: la condizione umana trova pienezza e compimento nel ricevere la vita, non nel «procurarsela», nell’accoglierla, non nel «produrla». Un figlio amato non ha paura di vivere, anche quando è debole, fallisce, cade, perché riceve tutto dal padre che dà la vita: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» dice infatti Cristo. L’individuo invece ha paura, perché è un orfano, solo contro tutti deve lottare per essere accettato e potersi poi accettare. L’individuo deve generarsi da solo, la persona è generata dalle relazioni. Ma gli individui non esistono, esistono figli perché in relazione con genitori; esistono amici perché in relazione con amici; esistono mariti e mogli perché in relazione con il coniuge; esistono discenti perché in relazione con docenti… L’io, grazie alle relazioni sane, è donato al mondo e a se stesso, non deve auto-promuoversi né meritarsi di vivere, è già «abbastanza»: quindi dalla qualità di queste relazioni nel tempo dipende il suo fiorire. Se però esse sono improntate solo al risultato l’io si sente sempre in-adeguato e in-soddisfatto, perché è voluto (bene) solo se all’altezza, il tu non è accolto così com’è, ma solo così come deve essere, secondo certe aspettative e certi standard. Invece la persona è già all’altezza, e per questo, nel singolo compito, può riuscire o fallire, senza paura che venga meno la sua esistenza e consistenza. La persona non si deve «realizzare», è già «reale» anche se incompiuta, e la sua incompiutezza non è una colpa, ma una energia interna attivata dalle relazioni, per diventare «più» reali. Grazie all’amore la persona riceve se stessa in «dono» ed è rinnovata nel «per-dono», il suo essere riposa nell’amore, invece l’individuo deve porre e imporre se stesso, non riposa mai.

Dobbiamo invertire, in famiglia e a scuola, la priorità della prestazione sulla presenza, ristabilendo il primato di quest’ultima. Vedo genitori, soprattutto mamme, angosciati dall’iscrizione alla prima elementare più di quanto si preoccupino di curare l’armonia tra intelligenza e affettività dei propri bambini. Si punta tutto sulle competenze, dimenticando che la persona è armonia sinfonica delle componenti vitali: spirito, intelligenza, volontà, corpo. Le domande dopo scuola (se non durante con messaggi invasivi) sono: com’è andata? Sei stato interrogato? Che voto hai preso? Che compiti devi fare? Nel parlare dei figli chiedono se sono bravi, non se sono felici, che cosa fanno, non chi sono. Il risultato è tutto. I figli, non riuscendo a sostenere la pressione, implodono o esplodono, o comunque interiorizzano che «essere non è esserci, ma riuscire». Basterebbe cominciare a sostituire le domande di prima: come stai? Avete giocato? Che cosa avete scoperto di bello? Con chi hai fatto amicizia? Come sta la maestra? Curando la persona inseriamo i bambini in una miniera di relazioni sane che pian piano faranno il diamante. Il principio personale mette l’io al centro di relazioni che conferiscono identità e si occupa di curarle, mentre quello del risultato spinge a soddisfare gli obiettivi. Gli adolescenti, loro malgrado, finiscono con il mettere in atto proprio l’individualismo a cui sono stati indirizzati, abbiamo detto loro per anni: funziona, concorri, realizzati… anziché ti voglio bene così come sei, vai bene anche quando non funzioni, pensando che dire queste cose fosse pericoloso per la loro «realizzazione» e inadeguato per un mondo in cui merita di vivere solo il più adatto.

venerdì 8 febbraio 2019

"Educare la mente senza educare il cuore significa non educare affatto” (Parte 3/3)


“Spiegatemi perché a scuola si debba formare solo la mente e non il cuore. Perché questa riduzione? ... E’ autentica quell’educazione che trascura la consapevolezza di sé, l’empatia, la solidarietà ? ... Perché queste emozioni sono assenti nella formazione scolastica? Perché non sono previste dai programmi e dai curricoli? Perché? Alcuni  rispondono:  La  scuola  non  si  deve  interessare  di  queste  cose.  Perché non se ne deve interessare?  Non serve l’educazione alla solidarietà?  Dite di no? Allora questa vostra scuola non serve. Non serve alla vita. Questa vostra scuola è inutile”. 

Mario Polito
Mario Polito,  pedagogista,  psicoterapeuta,  autore di  manuali  e programmi  di  formazione preziosi  per docenti  e studenti,  da  anni  impegnato  a  favore  di  una  scuola  attenta  all’educazione  e  al  servizio dell’uomo, abbandona il consueto tono pacato e sorridente: la passione, gli ideali, incontaminati nel tempo,  lo  accendono  ad  una  sventagliata  sferzante  sul  preoccupante  vuoto  emotivo  e  morale  della società  odierna,  in  cui  regna  l’inerzia.  L’autore  vede  nella  povertà  di  attenzione  alle  emozioni  il nodo  del  disagio,  delle  sofferenze  e  delle  ingiustizie.   

“Qual  è  il  costo  di  un’insufficiente  intelligenza emotiva?    Qual  è  il  costo  dell’autostima  ferita,  dell’identità  personale  frantumata?  Qual  è  il  costo dell’incomprensione e della diffidenza reciproca? Quali sono le conseguenze? Possiamo fare qualcosa per evitare  tutta  questa  sofferenza  assurda  e  inutile? La  risposta  è  Sì.  Educare  il  cuore  dei  nostri  figli  e  dei nostri studenti“

Il  suo  progetto  educativo  Educare  il  cuore”  è  una  sfida  ideologica e metodologica,  per  ridare priorità  e  centralità  alle  emozioni  nell’educazione  e  nella  scuola  come  via  per  garantire  autentico apprendimento, benessere e solidarietà, suscitando responsabilità  e  senso  morale  per  ideali  di elevato vigore, al fine di generare relazioni costruttive. Il testo inizia con il presentarci le numerose motivazioni che rendono oggi  necessaria l’educazione emozionale: gestire conflitti, incomprensioni, situazioni di tensione, sovraccarico, stress emotivo. Le emozioni sono alla base della motivazione e del coinvolgimento personale, così come la causa di blocchi  e difficoltà di apprendimento. 

“Le emozioni sono importanti per tutta la vita, perché danno orientamento, gusto, forza vitale alle proprie azioni e progetti”. L’autore osserva che la scuola deve ampliare il suo panorama formativo e non ridursi alla sola trasmissione di contenuti disciplinari. 

“Dobbiamo  offrire  agli  studenti  strategie  per  costruirsi  una  vita  migliore,  affrontare  le  situazioni difficili, stare bene con gli altri” Il  suo  progetto  di  educazione  nasce  proprio  dalla  constatazione  della  necessità  di  sopperire all’analfabetismo  emotivo  ,  alla  progressiva  disumanizzazione,  che  contraddistingue  la  società odierna.   

Il tono a questo proposito diventa   drammatico,   infatti   l’autore   mostra   una   forte partecipazione  al malessere e alla deriva morale  imperante, in cui riconosce  una nuova categoria di povertà : la “miseria emotiva relazionale”, resa evidente dal vuoto comunicativo, dall’incapacità di  riconoscere  le  proprie  emozioni  e  quelle  altrui ed  esprimerle,  dall’assenza  di  empatia,  che  si accompagna  a  incontinenza  emotiva  e  pulsionale,  a  debole  presenza  di  regole  di  autocontrollo,  di codici morali condivisi e rispettati. Il consumismo imperante “non è solo un fatto commerciale, ma è un atteggiamento che intreccia emozioni, valori, desideri, aspettative”, corrompendo l’intelligenza emotiva, distorcendo il rapporto con la realtà, vista come  bene da consumare, cui si accompagnano atteggiamenti  edonisti  e  la  perdita  di  aspirazioni formative  e  di  slancio  ideale

L’apprendimento  è  un’esperienza  emotiva; le emozioni  positive,  attraverso  il  coinvolgimento, l’entusiasmo,  la  gioia  della  competenza  raggiunta, la  crescita  dell’autostima  che  alimenta  nuovo desiderio di apprendere, lo facilitano e rafforzano; le emozioni negative, legate a sfiducia, senso di emarginazione, incapacità, distruttività, che turbano l’attività mentale, lo compromettono.   “La  chiave  dell’intelligenza  è  depositata  nel  cuore.”  C’è  una  priorità  emotiva  sulla  dimensione cognitiva e i contenuti disciplinari viaggiano bene solo su un percorso emotivo. 

“Quanto ami le cose che studi? Poco? E allora le impari poco. Più le ami, più le impari”. Ecco, entra in scena l’amore. E con esso, la riflessione sulla funzione pedagogica, eminentemente affettiva, in cui lo studente trova forza,  fiducia,  stima,  coraggio  per  affrontare  l’avventura  della  conoscenza  e  per  non  abbattersi  di fronte  alle  difficoltà  nella  figura  dell’adulto  educatore,  che  ama  e  ha  a  cuore  la  sua  auto realizzazione.  Emerge  un  tema  assai  caro  all’Autore  :  il  benessere  emotivo  nel  gruppo  classe,  la necessità di svilupparlo e tutelarlo con attenzione, attraverso la cura di un clima di classe positivo, partecipe, solidale, alla cui costruzione, nel rispetto delle regole condivise, sono tenuti a collaborare gli  studenti  giorno  per  giorno,  imparando  così  la  responsabilità  reciproca,  l’altruismo,  in  un ambiente  attento  alle  risorse  e  alla  valorizzazione  di  ciascuno. 

Fiorisce  così  il  senso  etico,  e  si trasmette l’amore pedagogico, nutrito dell’interesse formativo per ogni alunno, che in pratica spinge l’educatore  a  trovare  tutte  le  strategie  per  opportunamente  agganciare  e  motivare,  prima  sul  piano personale affettivo e poi sui contenuti tutti i suoi studenti, in particolare quelli difficili, che la scuola selettiva trascura, stigmatizza e perde. Un buon insegnante, sottolinea con vigore l’Autore, sulla scorta degli insegnamenti di Don Milani, ama la crescita e l’autorealizzazione dei propri studenti, ama la sua materia e la fa amare, riempie di emozioni  positive  i  contenuti,  animandoli  di  passione  e  trasmettendo  entusiasmo.  E’  accogliente  e sa  comprendere  e  incoraggiare  nelle  difficoltà.   

Confronta  ciascuno  con  i  propri  talenti,  e  valuta  in ciascuno  l’intreccio  fra  apprendimento,  emozioni,  motivazione,  progresso  personale.  Infonde  forza e passione per gli ideali, valorizzando il coraggio, l’empatia, l’altruismo, l’amore per la ricerca, per il  bene  dell’umanità  anche  attraverso  il  proprio  impegno,  slancio,  sacrificio.  L’Autore  si  spinge  a evocare un rifiorire dei comportamenti eroici “Oggi i veri eroi sono le persone giuste e le persone di cuore”.  Non  si  tratta  di  essere  illusi,  si  tratta  di  scegliere.  E  alle  obiezioni dei numerosi insegnanti  scoraggiati,  delusi,  stanchi,  disincantati,  risponde  utilizzando  un  proverbio  popolare:  “Se  il  tuo progetto  riguarda  un  anno,  pianta  il  grano.  Se  il  tuo  progetto  riguarda  dieci  anni,  pianta  un albero. Se  il  tuo  progetto  riguarda  cento  anni,  istruisci  il  popolo”. rio

Polito Mario, Educare il cuore, La Meridiana, 2005