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Amici di Mariele cooperativa sociale onlus | Vicolo Parco sud 2 | 40018, San Pietro in Casale (BO)

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testo

“Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,

lasciata all’iniziativa privata e ai comuni.

La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola

è indipendente dal controllo dello Stato”

Antonio Gramsci, Grido del Popolo, 1918

sabato 24 novembre 2018

LUIGI BALLERINI: come parlare ai giovani?

Medico, psicanalista e scrittore, Luigi Ballerini sa come parlare ai giovani. 

Formatosi alla scuola di Giacomo Contri, fondatore e presidente della Società Amici del Pensiero Sigmund Freud, è editorialista per ‘Avvenire’ sulle tematiche scuola, educazione, giovani e ha collaborato anche con ‘Il Sole 24Ore’. Ospite, opinionista ed esperto in numerose trasmissioni televisive (TGcom24, RAIGulp, Canale5) e radiofoniche (Radio24, RAIRadio3 e RaiRadio2). 
Uno dei suoi libri è stato insignito del White Raven Award 2009, nel 2014 ha vinto il Premio Andersen per il miglior libro età 9-12 anni e nel 2016 il Premio Bancarellino. Tra le altre cose è stato membro della Commissione Scuola di Expo2015. 

In questa intervista tratta di Il Cosmo (qui leggi l'originale) prova a fare luce sull’universo giovani, tanto sconosciuto, quanto pieno di luce.

Quanto sono cambiati i giovani?
Hanno trovato un’iscrizione su un vaso d’argilla dell’antica Babilonia, in cui si diceva che i giovani di quell’epoca erano terribili e che la fine del mondo sarebbe stata vicina. Quindi questa domanda se la pone ogni generazione. In realtà i giovani sono sempre gli stessi. La giovinezza ha un desiderio: quello di lasciare un segno nel mondo, di non vivere inutilmente, di sperare di cambiare le cose, di essere significativi per qualcuno. I ragazzi sono gli stessi, ma è cambiato il contesto in cui si trovano a vivere. I ragazzi del 2019 vivono in un contesto particolare caratterizzato da due elementi. Il primo, una maggior fragilità del mondo adulto e il secondo, è innegabile che l’avvento del digitale ha cambiato le regole dei giochi. Gli adulti sono più fragili, insicuri, a tratti più adolescenziali che gli adolescenti stessi, fanno fatica ad essere guide e temono di perdere l’amore dei figli. Confondono controllo con educazione. Questa generazione, mi viene da dire, è la più controllata e la più abbandonata della storia. Poi ci sono le nuove tecnologie che smaterializzando la realtà, il mondo reale, e ciò ha delle implicazioni

Adulti-bambini e Bambini-adulti: a cosa è dovuta questa inversione di ruoli?
Tendo ad assumere questo in un processo di infantilizzazione dell’adulto, come detto prima, e di adultizzazione dell’infante. È vero che il desiderio di crescere, di diventare o sembrare grande, non è un desiderio nuovo. L’idea di abbandonare presto il mondo dell’infanzia per atteggiarmi da grande ha un problema però: prende come riferimento uno stereotipo di adulto. Cosa significa diventare grandi? Di certo non è scimmiottare comportamenti e atteggiamenti, che è una cosa che spesso fanno

Legati ai recenti fatti di cronaca e statistiche sulle dipendenze, i comportamenti autodistruttivi dei giovani a cosa sono dovuti?
Quello che io osservo è che c’è un precoce implemento di abuso di cannabis sicuramente, con ragazzi e ragazze molto giovani che sono stati convinti da articoli in rete della totale innocuità della cosa. Tale per cui viene ritenuto ‘normale’ che si fumino spinelli alle medie, in alcune zone d’Italia più o meno di altre. Questo ne aumenta la diffusione. Io ho l’impressione, per i ragazzi che conosco e che frequento, che non c’è l’idea dell’autodistruzione. Cioè non lo faccio per quello, ma perchè mi sembra di averne un beneficio. Anche il problema dell’alcol è diffuso: si inizia presto, è facilmente disponibile, tipo gli ‘shottini’, che costano poco e vengono serviti anche ai minori, perchè non viene chiesta la carta d’identità. Parlando con loro però, mi dicono: ‘Se butto giù qualche ‘shottino’, se mi fumo una canna o se altero il mio stato, diventano più facili i rapporti: riesco a fare il brillante con le ragazze, a inserirmi nel gruppo. In realtà viene fuori una fragilità del soggetto. Perchè se un soggetto si sente interessante e ritiene di avere qualcosa da dire non avrà bisogno di cercare in una sostanza nociva la forza di interagire con il gruppo. Io non ho mai incontrato ragazzi che volutamente cercassero del male, sono dei sedativi all’angoscia. Molti dicono ‘almeno per un po’ non penso’, perchè per loro pensare è diventato faticoso, doloroso. Per cui gli dà uno stato di sedazione temporanea che li lascia tranquilli e che loro scambiano per benessere

Parlare ai giovani: come si fa ad essere efficaci?
Nel mio ultimo romanzo appena uscito ‘Torna da me’, un ‘crossover’, scritto per i ragazzi, ma leggibile per gli adulti, l’incipit è proprio ‘Non ti capisco più’. C’è questo battibecco tra madre e figlia sedicenne. Questa ragazza diceva che sua madre non capiva nulla di lei, non si capivano tra di loro, la madre non capiva ciò e quindi non si erano mai capite. Si fa fatica a capirsi dunque e per capirsi bisogna parlarsi. La questione che lei pone è una questione rilevante perchè l’adulto a volte tende a scambiare la comunicazione con i più giovani come unidirezionale. Per parlare bisogna essere in due e bisogna saper ascoltare. Il problema più grande nella comunicazione dei giovani è che è unidirezionale, mentre in realtà si tratta di guardarli con stima, considerandoli dei soggetti titolati a dire qualcosa di loro stessi. Il soggetto si sente ascoltato e non necessariamente assecondato , ma quantomeno ascoltato con serietà nelle sue istanze. Non con un puro oggetto di educazione, è più facile che parli e che a sua volta ascolti. Io credo che sia da rivedere quella che chiamiamo la comunicazione di famiglia. Quando un giovane trova un adulto che è interessato davvero a capire che idea si è fatto su una certa cosa, dice questa idea. Sarebbe utile che gli adulti frequentassero quella che erroneamente in Italia è considerata letteratura per giovani. Per un adulto leggere un libro in cui c’è un protagonista giovane, permetto spesso di capirli di più. Per parlare meglio con i giovani bisogna conoscerli di più e un modo per conoscerli è anche frequentare quei testi che li fanno parlare.

mercoledì 7 novembre 2018

Sabato 24 novembre: il nostro Open Day !



SCOPRI QUI ALCUNE PILLOLE DELLA NOSTRA PROPOSTA

Perché diversi genitori scelgono per i loro figli una formula scolastica diversa? Cosa cercano? Per capire e dare queste risposte a genitori e famiglie interessate, abbiamo pensato ad una mattinata di incontri:


OPEN DAY
SABATO 24 NOVEMBRE
DALLE ORE 9,30 ALLE 13,00

Nel corso dell'intera mattinata sarà possibile assistere a piccoli momenti di lezione, incontrare famiglie e genitori che conoscono il nostro progetto educativo, vedere foto e video delle attività svolte, e per i bambini partecipare a laboratori organizzati per loro.

Per partecipare non occorre fare altro che presentarsi entro le ore 12:30 di sabato 24 novembre nella sede di San Pietro in Casale, Vicolo Parco sud n.2 (a 150 metri dalla piazza principale del paese)


venerdì 2 novembre 2018

Perché l’educazione non renda stupidi

Perché nelle scuole cattoliche gli studenti imparano meglio e di più che in quelle statali? Il motivo è una passione diversa all’educazione dei giovani. Un interessante articolo apparso il 2 novembre 2018 su Il Sussidiario (qui l'articolo originale) a firma Giorgio Vittadini, fondatore e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ordinario di Statistica Metodologica presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca e direttore scientifico del Consorzio Interuniversitario Scuola per l’Alta Formazione Nova Universitas.
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Le scuole private, nel nostro Paese gestite in origine per lo più da ordini religiosi, sono viste, oltre che come il luogo dell’educazione elitaria, anche come ambienti in cui ottenere un surplus di aiuto per i figli in difficoltà, vuoi per carenze nell’apprendimento, vuoi per problemi comportamentali. Luoghi insomma in cui oltre al rendimento scolastico si può sperare in un’attenzione più globale ai ragazzi (se non per convinzione, almeno come servizio aggiuntivo per una retta salata). Tante famiglie hanno mandato i figli nelle scuole non statali per il desiderio che fossero curati di più, perché fosse voluto loro anche più bene. 
Ora sappiamo che se molte scuole private sono ai vertici per i risultati scolastici dei loro studenti, lo si deve anche alla cura di quegli aspetti che sono sempre stati considerati ai margini della didattica. Chi conosce questi ambienti sa che non si tratta tanto della disciplina (per quanto l’intento “moralizzatore” sia stato piuttosto diffuso). Ciò che molte famiglie hanno obiettivamente trovato è uno sguardo verso i ragazzi che tiene conto delle loro caratteristiche, della loro personalità, dei loro desideri e aspirazioni.
Le neuroscienze, e perfino le ricerche empiriche condotte da economisti, stanno confermano in modo netto quanto il processo di apprendimento dipenda in tanta parte da un “assetto” umano, cioè da caratteristiche di personalità e che queste possono essere educate. Pensiamo a quanto la memoria sia legata a meccanismi emotivi di piacere o, in negativo, di dispiacere. È ormai dimostrato che la memoria di un contenuto appreso è anche ricordo dell’emozione che è stata provata durante l’apprendimento di quel contenuto. Un sentimento negativo, come paura di sbagliare, senso di colpa o di inadeguatezza, porterà a difendersi anche dal ricordo del contenuto. Da qui semplicemente viene l’esigenza di un educatore non giudice ma alleato del ragazzo contro l’errore. In sostanza, quello che è sempre più chiaro è che non c’è atto della vita mentale che non sia nello stesso tempo comprensione ed emozione.
Oppure pensiamo ai lavori sui character skill di molti studiosi, tra cui il premio Nobel per l’economia James Heckman, che mostrano quanto elementi come estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale (dimensioni che un gruppo di ricerca italiano ha espresso con altre articolazioni, come capitale psicologico, autoefficacia, motivazione) siano il fattore determinante anche nell’acquisizione di conoscenze, oltre che per la possibilità di non interrompere gli studi. 
Se si aggiunge poi il fatto che le innovazioni tecnologiche stanno trasformando rapidamente anche il mondo del lavoro e che quindi sta diventando sempre più decisiva la capacità di imparare più che le conoscenze in sé, si capisce quanto il mondo della scuola sia chiamato a una rivoluzione.
C’è un “nota bene” che però non va trascurato. Quello che empiricamente è stato compreso in tante esperienze didattiche (statali, paritarie, private), acquisito attraverso le neuroscienze o, ancora, nella ricerca socio-economica, disegna in modo netto una certa idea di essere umano che non è inutile tenere come faro anche di una azione didattica. Quello che emerge è la dinamica ultimamente positiva della natura umana, che tende irriducibilmente a migliorarsi, a crescere, a cambiare; è la fiducia nella capacità della ragione di conoscere la realtà, fiducia che apre la ragione alla sua creatività e fa scoprire il suo essere in relazione; un’esperienza di conoscenza non solo possibile, ma anche in grado di rendere le persone più se stesse. 
Per questo, conoscere è imbattersi in qualcosa di nuovo, di reale, che si scopre essere “per noi”. Conoscere fa sentire “più io” e ci cambia. Per questo va fatto scoprire il lato attrattivo della conoscenza (quel grande educatore che è stato Luigi Giussani diceva che la logica della conoscenza è imparare da una simpatia ultima), che non è banalizzazione, ma il gusto di sentirsi completare da ciò che si conosce. E per questo va “spezzato il pane” del sapere perché sia digeribile da tutti gli stomaci. Solo così l’esperienza della conoscenza può cambiarci, farci progredire.
Una volta che vengono affermate le linee culturali sottese alle scelte didattiche, in realtà il lavoro a scuola è tutto da cominciare.
Sappiamo quanto progresso umano ha portato nella storia un approccio positivo alla consapevolezza della grandezza della nostra natura umana. Ma sappiamo quanto c’è da fare perché questa antropologia positiva si affermi e diventi utile anche in un cambiamento d’epoca come quello che stiamo vivendo. Quanto ancora c’è da fare per dare ai ragazzi gli strumenti per scoprire chi sono, che sono fatti per conoscere e così crescere? 
Come ci accorgiamo se quello che insegniamo cambia i nostri studenti, in particolare la loro capacità di ragionare, al di là di ciò che imparano? Ma poi: siamo in grado di insegnare a ragionare? E a essere curiosi? Si può sostenere la natura curiosa dei ragazzi? Quanto tempo dedichiamo all’ascolto delle loro domande? Sappiamo spingerli a chiedere? Come motiviamo la fatica di conoscere? Quale esperienza fanno i nostri studenti di questo “val la pena”?
Assumere per buone queste domande può lasciare intravvedere la rivoluzione che aspetta la scuola nei prossimi decenni. A meno che non ci si voglia rassegnare, come disse Helvetius che “gli esseri umani nascono ignoranti, non stupidi: li rende tali l’educazione.