Molto interessante l'articolo pubblicato da Alessandro D'Avenia lunedì 24 giugno all'interno della sua rubrica "Letti da Rifare" (ogni lunedì su "Corriere della Sera".
Ne pubblichiamo una sintesi, mentre l'intero articolo è leggibile qui
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Le «mancanze» di creatività, generosità, iniziativa, sono strettamente
collegate alla mancanza di «sentimento della vita» e non uso
«sentimento» per indicare un’emozione, ma la relazione profonda di cuore
e testa, uniti, con l’essenziale. Siamo l’unico essere al mondo che «si
sente vivere», cioè capace di dire: quello a cui accade questa cosa
sono io. Quindi più entro in contatto profondo con «i materiali della
vita» più si approfondisce il mio sentirmi vivere, cioè il senso della
mia vita, l’unica cosa capace di renderci felici perché ci strappa
dall’indifferenza, il cancro della vita spirituale. Non dimenticherò mai
le fughe dalla finestra nell’ora del coprifuoco pomeridiano durante la
villeggiatura al mare. Avevo sei o sette anni e mi obbligavano a
riposare per recuperare le forze prosciugate dal sole e dal sale ma,
quando calava il silenzio, aprivo cautamente la serranda e sgattaiolavo
fuori. Camminavo senza meta, esplorando la natura circostante e mi
spingevo fino alle dune che nascondevano il mare, mi sembrava tutto
pericoloso e straordinario. Studiavo ogni cosa: rumori, animali,
reperti; inseguivo lucertole, scarabei e farfalle; inventavo giochi,
avventure e tesori. Mentre scrivo questi ricordi sento gli odori e vedo i
colori, tanto sono impressi nella mia memoria. Qualche estate dopo,
tredicenne, in quella stessa stanza ci rimanevo volentieri perché mio
fratello mi aveva prestato un libro che rapiva le ore del coprifuoco
pomeridiano. Mi immergevo nelle 1.200 pagine del Signore degli Anelli con
lo stesso stupore con cui anni prima scappavo per esplorare il mondo
frastornato dalla calura e dalle cicale. Nell’uno e nell’altro caso si
trattava di due ore, come quelle di Calvin, dedicate alla scuola dello
stupore: la parola scuola viene dal greco scholè, che
significava «tempo libero». La densità di ciò che mi veniva incontro era
tale che si trattava di veri e propri «eventi», cioè quei fatti che si
impongono all’attenzione perché talmente «traboccanti di significato» da
diventare chiamate alla vita. In quelle ore ho maturato un profondo
«sentimento della vita»: avventura, esplorazione, silenzio,
osservazione, lettura, stupore, paura, solitudine buona… Ho imparato a
incontrare le cose semplici ed essenziali, e a cercarle in tutto ciò che
faccio. Questo mi ripara da quella artificiosa complicazione oggi
spacciata per intelligenza e profondità e che, spesso, è il contrario:
pigrizia di fronte alla verità che si offre ai nostri occhi. Per
esempio, a scuola, abbiamo sotto gli occhi l’essenziale, il traboccante
di significato: i ragazzi, e invece di occuparci di loro, siamo più
preoccupati da programmi, burocrazia e chissà cos’altro, per poi
nasconderci dietro analisi raffinatissime sul perché i giovani d’oggi
siano ridotti così… Una vera rivoluzione non comincia mai dalla
distruzione ma da un rinnovato atto di comprensione dell’evidente:
com-prendere vuol dire «prendere insieme» qualcosa, testa e cuore uniti.
Dovremmo ricordarlo noi italiani, che possiamo indicare, con un unico
verbo, sia l’azione di capire qualcosa («ho compreso il punto») sia
quella del sentirne la vita («ti comprendo»).