"Scrivere di disabilità mi ha insegnato che è un
errore parlare dei disabili come 'disabili': e non c'entra niente il
politicamente corretto o le etichette. C'entra il fatto che è sbagliato
qualsiasi punto di vista che non veda prima la persona. La sua vita, le
sue ansie, i suoi difetti, i suoi sogni...".
Questo libro parla di un ragazzo non vedente.
Cioè, il protagonista è Michele, un diciottenne che a tredici anni ha
perso la vista. Potrei descriverlo così, certo. E, forse, quando le
prime parole sono finite sullo schermo, l’idea era un po’ quella.
Poi, però, la faccenda è cambiata. Mano a mano che la storia
proseguiva, e soprattutto quando Michele incontrava Nina e ne seguiva la
scia, mi rendevo conto che la cecità non era il centro. Che non stavo parlando di un cieco: stavo parlando di un ragazzo.
Credo sia un po’ come nel mio lavoro da insegnante: quando hai in classe ragazzi con disabilità,
o dislessici, o ragazzi che hanno un qualsiasi bisogno educativo
speciale, la prospettiva cambia totalmente quando ti rendi conto che
dietro quei muri di carta, quei pacchi di certificazioni, sigle, ci sono solo due occhi, un cuore e tanta paura.
La chiave, quando la trovi, ha quasi sempre la forma di un’emozione
e tutta la distanza che c’è scritta su quei fogli, molto spesso si
azzera nel momento in cui trovi quello di cui tutti abbiamo bisogno,
ciechi, vedenti, abili, disabili: le parole giuste.
Scrivere di disabilità mi ha insegnato quello che davvero non mi aspettavo di imparare,
e cioè che non è molto interessante raccontare ciò che le persone non
riescono a fare. Nelle storie come nella vita, è noioso e anche un po’
triste stare lì a fissare l’ostacolo, fermi a concentrarsi su quante
cose sono andate storte, ma è molto più bello immaginare cosa c’è oltre.
E poi, con coraggio, vedere che succede a provarlo a scavalcare.
Scrivere di disabilità mi ha insegnato che è un errore
parlare dei disabili come “disabili”: e non c’entra niente il
politicamente corretto o le etichette. C’entra il fatto che è
sbagliato qualsiasi punto di vista che non veda prima la persona. La sua
vita, le sue ansie, i suoi difetti, i suoi sogni. E, quando il punto di
vista è quello, poi sparisce perfino il concetto di disabilità: Michele
è un cieco, sì, ma dopo un po’ di pagine riesci a scordarti che lo sia.
È solo un ragazzo che si innamora di una ragazza in un treno, annusando
il suo profumo.
Alla fine, le storie che scrivi, un po’ come i tuoi studenti se sei
un professore, iniziano con te che credi di insegnare, ma finiscono con
te che ti rendi conto che hai ancora tutto da imparare.
Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi, in
classe come sui social, dove è molto seguito. Nato a Pordenone nel 1977 è
insegnante in una scuola di periferia e ha creato la webserie "Cose da
prof" che ha superato i dieci milioni di visualizzazioni su Facebook. Nel
2015 è stato inserito nella lista dei 100 migliori insegnanti d’Italia dal sito
Masterprof.it. Il segreto di un buon insegnante per lui è «Non ti ascoltano, se
tu per primo non li ascolti». Ogni tanto prende la sua bicicletta e se ne va in
giro per l’Europa con uno zaino, una penna e tanta voglia di stupore. Il suo
romanzo d’esordio "Eppure cadiamo felici" è stato il libro
rivelazione del 2017 e ha vinto il Premio internazionale Città di Como come
miglior opera prima. Nel 2018 ha pubblicato
"Tutta la vita che vuoi" . Ora torna in libreria, sempre con Garzanti, con
"Più forte di ogni addio", un romanzo che mostra perché ogni momento
è importante. Soprattutto quello in cui dire alle persone che amiamo cosa
significano per noi.